Neil Young
Chrome Dreams II
Benché sia da diversi anni senza produrre opere memorabili, l’alacre Neil Young, ormai giunto nella fase crepuscolare di una carriera inimitabile, ha saputo mantenere una invidiabile capacità di sviluppare il proprio percorso artistico in maniera accattivante e inquieta, pur all’interno di lavori inevitabilmente discontinui.
Non fa eccezione “Chrome dreams II”, il quale però si candida prepotentemente per la palma di miglior album del Canadese da un paio lustri a questa parte. Se il titolo dell’opera rimanda a quel “Chrome dreams” posto nel lontano 1977 dal suo autore in un limbo eterno (assieme a “Homegrown” è la più celebre delle invisibili reliquie younghiane), il contenuto riporta a lavori mitici quali “After the goldrush” o “Freedom” per le sfaccettate rifrazioni che ne avvolgono le spire. La scelta di un titolo così impegnativo e la pubblicazione di quest’opera prima dell’agognata uscita del vaso di pandora degli Archivi sono del resto due indizi significativi: “Chrome Dreams II” pare un tassello fondamentale nell’intricato mosaico del suo autore. Quasi la chiusura di un cerchio nella peculiare epica di un autore che non ha ancora smesso di evocare suggestivi miraggi americani.
L’album si snoda per buona parte su coordinate di routine: la cristallina rugiada country-folk di “Beautiful Bluebird” ( vecchio pezzo ripescato dalle session di “Old ways”) richiama palesemente l’incipit di “Harvest”, mentre il banjo che avvolge “Boxcar” disegna traiettorie polverose di squisita fattura. Questa tavolozza di colori caldi e vivaci si rafforza laddove si ammantano le atmosfere con un soul morbido ma forse troppo d’antiquariato in pezzi come “Shining light”, “The Believer” e “Ever after”, cui fa da contraltare il rifferama appuntito di “Dirty Old Man”, classico garage-punk younghiano.
Ma il cuore pulsante di “Chrome dreams II” è costituito da una splendida “trilogia della strada”: Neil prosegue il suo vagabondaggio tra le pieghe del sogno americano, tra i mirabolanti splendori e le insanabili antinomie della grande potenza. Il piglio è quello del sopravvissuto del rock, alternando rabbia, compassata mestizia e immutata speranza, Il tour de force di “Ordinary People” è emblematico: non è un caso che Young abbia deciso di ripescare tale brano (risalente ai tempi di “This Note’s for you”, in piena epoca reaganiana) per l’occasione. Diciotto minuti ruggenti, con la sezione fiati dei Bluetones e la sei corde di Neil che si intrecciano in un climax di grande impatto, e un testo che mischia sapientemente echi whitmaniani e la verve del vecchio Neil nel descrivere in chiave surreale e metaforica una società sempre più avulsa da una dimensione umana: impareggiabile la vertigine che regala il suo scrutare ogni persona che incontra al punto da vedere dentro se stesso.
“Spirit road” è invece una corsa a rotta di collo per le human highways ventose e desolate che hanno costellato la sua carriera. La frontiera non si attraversa, si abita, si scandaglia e l’uomo col cappello da cowboy ne coglie l’essenza tessendo uno dopo l’altro riff garage-rock abrasivi e indiavolati, scanditi dalla batteria pestona di Ralph Molina. La trilogia si conclude con i 13 minuti vibranti di “No Hidden Path”: torna il Young imperscrutabile di “Sleeps with angels”, tra riff affilati e squarci melodici di sublime intensità, ma il senso di perdita e desolazione lasciano spazio a toccanti bagliori: “Will the northern lights still play as we walk our distant days/ Ocean sky, sea of blue, let the sun wash over you”.
Il sipario cala con la soave litania di “The way”: l’ennesima, perfetta ballata pianistica di Neil. Una melodia tanto semplice e puerile (con tanto di coro di bambini) quanto riuscita: una luce tenue e soffusa che viene da lontano, e illumina il ritorno a casa.
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