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R Recensione

10/10

Rory Gallagher

Irish Tour '74

Talento, cuore, passione, feeling, carisma, dedizione… questo era Rory Gallagher. Non è mai stato una rock star, un divo o un’immagine da copertina, no, lui era un vero ambasciatore della musica, un Musicista prima di ogni altra cosa, ma uno di quelli in grado di suonare le corde dell’anima. Schivo, riservato, testardo, umile, l’artista irlandese è da considerarsi uno dei veri grandi maestri della chitarra rock-blues, uno che negli anni settanta non temeva confronti, nemmeno con colleghi illustri del calibro di Jimmy Page ed Eric Clapton.

Rory Gallagher fu uno dei pochi chitarristi elettrici venuti fuori dopo l'esordio di Hendrix a non essere influenzato in maniera evidente dal Divin Mancino. Le sperimentazioni acide e visionarie non sono state fra i suoi riferimenti e la componente psichedelica nella sua musica è quasi del tutto assente. Il suo stile musicale era invece figlio sia della tradizione country-folk-blues americana - quella di personaggi come Lead Belly e Woody Guthrie, giunti inizialmente a Rory filtrati attraverso le cover skiffle style di Lonnie Donegan - che dei grandi padri del blues e del rock & roll: Buddy Holly, Buddy Guy, Eddie Cochran, Muddy Waters, Howlin' Wolf. A tutto questo si univa l'influsso del repertorio folk tradizionale irlandese.

L'avventura di Gallagher cominciò nel 1966 quando formò i Taste, un power trio di solido blues-rock che raggiunse l'apice della notorietà con l'esibizione nel 1970 al festival dell'isola di Wight. Nello stesso anno Rory decise di sciogliere i Taste per intraprendere la carriera solista, durante la quale pubblicherà diversi ottimi dischi in studio, ma soprattutto spettacolari live.

Di base Rory è, infatti, sempre stato un grande performer, uno di quei musicisti che sul palco riusciva a dare il meglio di sé: lì con la sua chitarra, davanti al suo pubblico diventava un tutt'uno con la musica, raggiungendo vette altissime, mentre in studio non sempre è riuscito a sfruttare a pieno il suo enorme potenziale. Già con l'ottimo “Live! In Europe” del 1972 il chitarrista dimostrò quanta incredibile energia riuscisse a sprigionare in concerto, ma fu nel 1974 che arrivò la vera consacrazione, col capolavoro “Irish Tour '74”.

Irish Tour è indubbiamente il suo album definitivo, il manifesto della sua musica, e uno dei migliori live nella storia del rock. Con quest'opera l'abilità del musicista raggiunge la maturazione completa, evidenziando nuovi miglioramenti stilistici rispetto al precedente live. Come si evince dal titolo, il doppio vinile fu compilato con una serie di registrazioni effettuate durante il tour irlandese del 1974, che vide Gallagher esibirsi a Dublino e Cork, ma anche a Belfast, in un periodo in cui la città nord irlandese non era di certo un luogo facile, a causa dei continui scontri e attentati – non erano passati nemmeno due anni dal tragico Bloody Friday – guadagnandosi così rispetto e ammirazione; celebre fu l'attestato di stima che ricevette da un giornale della città: “Rory Gallagher non ha mai dimenticato l'Irlanda del nord, ha suonato qui negli anni settanta, quando altri artisti del suo calibro non osavano nemmeno avvicinarsi”.

Ad accompagnare Rory sul palco vi sono Gerry McAvoy al basso, Lou Martin alle tastiere e Rod de'Ath alla batteria, stessa band dei due precedenti dischi in studio.

Il live si apre con la ruggente “Cradle Rock” (da “Tattoo”), un rock-blues tirato, potente, viscerale, quasi hard rock, ma senza mai sfociarci del tutto, mantenendo sempre l'impronta bluesey, grazie anche al piano di Lou Martin che contribuisce ad ammorbidire un po' il sound. Già da questo primo pezzo ci si accorge della notevole differenza rispetto al Gallagher in studio; la "Cradle Rock" di "Tattoo" era un buon pezzo, ma questa è una vera bomba, completamente rinvigorita e rimpolpata di assoli e improvvisazioni vertiginose. La sua abilità con la tecnica slide è impressionante, qui poi riesce ad alternarla a fraseggi classici con una naturalezza incredibile. Bisogna menzionare anche il Rory cantante, certo oscurato dalla sua bravura alla sei-corde, ma comunque in possesso di una voce niente male, perfetta per il blues, con quel retrogusto un po' alcolico da ragazzo di strada. Insomma una vera killer song, un pezzo perfetto come inizio.

 “I Wonder Who” è una cover del leggendario Muddy Waters, uno slow blues potente iniziato con chitarra e voce e poi rinvigorito dalla sezione ritmica e da raffinati fraseggi pianistici. Anche qui c’è molta improvvisazione, con una chitarra particolarmente tagliente, che alterna pause a vere e proprie mitragliate di note. Molto simile è “Too Much Alcohol”, altra cover, questa volta di Benjamin Hutto, altro super blues in dodici battute, giocato sul finale col pubblico che si diverte insieme a Rory ad aumentare la gradazione alcolica.

“Tattoo’d Lady” è fra i pezzi forti dell’album e parte subito con tutta la sua intensità e frenesia, saltando la breve introduzione della versione originale. La sezione ritmica qui è particolarmente travolgente e l’interazione fra il piano e la chitarra è un capolavoro d’intelligenza musicale. Tutti sanno cosa fare, mai una sbavatura, ma una nota fuori posto, mai uno stacco fuori tempo, l’affiatamento fra i quattro è praticamente perfetto. L’esecuzione è impeccabile, e Rory piazza due assoli, uno a metà, l’altro alla fine, entrambi memorabili, una cascata di note irrefrenabile, un flusso continuo di energia. Grazie anche a una melodia molto orecchiabile, quasi pop, il brano sarà uno dei numeri preferiti dai fans in sede live.

 “As the Crow Flies” di Tony Joe White, è il momento acustico dello show. Rory, da solo senza la sua band, si presenta sul palco con chitarra resofonica (Dobro) e armonica, calandosi un po’ nei panni di un menestrello d’altri tempi, e regala una prova da brivido. Memorabili passaggi di slide guitar e splendidi assoli di armonica fanno di questo folk-country-blues una vera e propria gemma. Gli spiriti fondatori del blues sembrano quasi prendere possesso della sua anima e guidarlo in questo fantastico viaggio.

I due brani seguenti rappresentano l’acme dell’esibizione, venti minuti di cui non va perso un solo secondo.

“A Million Miles Away” è un lento evocativo, gentile e il cantato è pieno di malinconia; una sorta di preghiera che, partendo dal basso, da situazioni comuni, semplici, riesce a sollevarsi e a far venire in mente paesaggi lontani, sospesi fra sogno e realtà. Rory non amava molto usare effetti, qualcosa in studio, ma dal vivo si faceva bastare l’essenziale. Preferiva mandare in over-drive i suoi amplificatori e poi controllare il tutto col volume della sua chitarra, invece che utilizzare pedali fuzz; lo stesso per il wah wah, Rory era uno dei pochi in grado di riprodurre quel suono senza gli appositi pedali, ma usando i controlli di tono sulla chitarra. Qui il chitarrista fornisce perfetta prova di questa straordinaria padronanza dello strumento, mostrando quale ricchezza sonora possa venir creata senza ricorrere a chissà quali diavolerie tecnologiche, a patto, ovviamente, di avere quelle favolose dita e la musica nel sangue. Commovente anche Lou Martin; fra i punti di forza del disco vi è proprio questa interazione, questa amalgama perfetta fra piano e chitarra, un intreccio continuo di note figlio di un’intesa talmente unica che sembra quasi i due strumenti siano suonati dalla stessa persona. Miracolo!

“Walk On Hot Coals” (da “Blueprint”) è l’incontro magico fra due mondi, fra passione ed esaltazione, fra corpo e spirito; è una corsa su un cavallo imbizzarrito, un treno rock & roll lanciato a tutta velocità sui binari del blues. Il chitarrismo di Rory risulta essere energico, di notevole impatto, ma anche dinamico, colorato, movimentato, per nulla statico o ripetitivo, sapientemente controllato, essendo a tratti duro, nervoso, ma anche dolce, leggero, espressivo; è incredibile come riesca a prendere sempre le note giuste. Fantasia, creatività e ispirazione sono gli elementi che caratterizzano la lunga coda strumentale di questo brano: un’improvvisazione immensa, in continua evoluzione, fra le migliori performance chitarristiche catturate su nastro. Hanno detto di lui: “La chitarra sembra cantare nelle sue mani”. Non posso che essere d’accordo. Da rilevare anche la prova di Rod de’Ath che pesta le pelli come un dannato senza perder mai un solo colpo. Spettacolo!

Ora meglio fermarsi un po’, prendersi una piccola pausa, perché dopo due perle del genere, qualsiasi cosa arrivi dopo potrebbe apparire ridimensionata.

La successiva “Who’s That Coming?” è, infatti, anch’essa superba, ma passa quasi in secondo piano rispetto a quanto già ascoltato. Eppure è un hard blues formidabile, impreziosito da vertiginose improvvisazioni, ed è anche l’ennesima dimostrazione di quanto Gallagher fosse assolutamente padrone del suono slide, un vero maestro. Tutti, come solito, fanno la loro parte, da Lou Martin alla sezione ritmica. Si chiude con gli spettatori tutti insieme a cantare, felici, entusiasti, soddisfatti.

Il live vero e proprio finisce qui, ma c’è ancora qualcosa da ascoltare. “Back on My Stompin’ Ground” è un’ottima jam poggiante su un accattivante riff e registrata in presa diretta nel Lane Mobile Unit. Nella versione originale in doppio vinile dell’album c’era anche “Just a Little Bit”, purtroppo tagliata nel cd rimasterizzato, ma non persa perché inserita fra le bonus track di Tattoo.

La registrazione delle performance e il missaggio finale sono ottimi. Il sound è in sostanza perfetto, riesce a catturare l’atmosfera live, il pubblico, ma allo stesso tempo ogni strumento vien fuori al punto giusto, tutto calibrato con estrema precisione. Il suono della sua chitarra è quanto di meglio vi possa essere, per molti questo è il più bel suono di Stratocaster che si sia mai sentito, o comunque se la gioca con Hendrix e pochi altri. Non bisogna però cadere nell’errore di considerare questo solo un disco per chitarristi oppure semplicemente una grande dimostrazione di tecnica, fosse solo quella non sarebbe in fondo niente di speciale. No, qui vi è qualcosa di più, anzi, molto di più, vi è un artista completamente immerso nel suo mondo, vi è una grande dimostrazione d’amore, prima che di tecnica, passione per il blues, per la musica, quella vera, quella genuina, quella che fa bene.

Dopo averlo ascoltato, mi sono sentito una persona migliore, che altro potrei desiderare?

Il tour è stato anche filmato ed è disponibile un omonimo video che alterna immagini sul palco, nel backstage e sequenze esterne.

Nel periodo post Irish Tour, Gallagher virerà un po’ verso l’hard rock, alternando lavori convincenti, come Calling Card, ad altri un po’ meno, continuando comunque a regalare memorabili concerti, come le esibizioni al festival di Montreux, mentre nel finale di carriera vi sarà un ritorno al blues. Se ne andrà prematuramente, come tanti altri chitarristi, distrutto dall’alcol nel 1995, ma il suo spirito vivrà per sempre nei cuori di chi ha capito quanta sincerità vi fosse in tutto quello che ci ha lasciato. Si è guadagnato l’immortalità.

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Ci sono 5 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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fabfabfab alle 15:53 del 8 marzo 2011 ha scritto:

Recensione super per un disco-icona, anche se non lo ascolto da tempo...

ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 19:14 del 8 marzo 2011 ha scritto:

mister slide guitar, gran bel disco e ottima rece.

swansong (ha votato 9 questo disco) alle 17:34 del 9 marzo 2011 ha scritto:

Recensione sontuosa per un capolavoro dell'hard blues..certo che anche il primo omonimo dei Taste, mamma mia!

NisiDominus (ha votato 10 questo disco) alle 10:37 del 20 settembre 2012 ha scritto:

Disco spettacolare per uno dei più grandi artisti mai esistiti. Bella recensione.

Utente non più registrat (ha votato 5,5 questo disco) alle 9:39 del 10 aprile 2021 ha scritto:

"indubbiamente uno dei più bei live della storia del rock"; beh, non esageriamo. C'è energia, passione e competenza, ma il blues revival ha i suoi limiti da qualche annetto. Qualche interminabile assolo in meno avrebbe giovato, così come qualche canzone tirata come Tatoo'd Lady in più. Ha i suoi momenti, ma è troppo lungo e troppo statico per i miei gusti.