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R Recensione

6/10

The Dead Weather

Sea Of Cowards

Tracce per iniziare il discorso ce ne sarebbero a migliaia. Supergruppo composto da membri di Raconteurs, Kills, Queens Of The Stone Age e White Stripes: il seguito di “Horehound” giunto a meno di un anno di distanza; curriculum, anno dopo anno, sempre più considerevoli per lunghezza e prestigio; l’inconsueta passione, a stretto giro di boa, per un suono cupo, connaturato, a larghe intese gotico. Invece, come se niente fosse, focalizzeremo altrove la nostra attenzione. Più precisamente, da “What Can I Do?”, primo singolo delle esordienti Black Belles, quattro graziose signorine già protagoniste della stampa e dei blog musicali d’Oltremanica, dedite ad un garage rock pulito e lievemente lisergico. È di questi mesi la notizia secondo la quale il video del pezzo è stato girato dal loro stesso scopritore (nonché, a giurare dal fervore con il quale le ha scritturate e spinte, maggior scommettitore): Jack White.

Analogico come tramite della pura essenza musicale. La bulimia creativa che attanaglia i pensieri del cantante, chitarrista e, tra questi solchi, batterista statunitense, negli ultimi anni, è volta a realizzare pedissequamente quest’obiettivo. Giocando, è ben chiaro, su quegli elementi che da sempre sagomano uno stile giovane, eppure inconfondibile e parimenti imitato: la reiterazione ed il minimalismo. L’accumularsi spasmodico dei progetti rivela l’ansia di esprimere, nella maniera più forte e decisa possibile, ogni gamma di nuances della propria ispirazione: lo scheletro del rock’n’roll difficilmente assediabile da evoluzioni policrome, il blues dallo spessore garantito e dalle setole rudi, le allucinazioni noir. Blocco, questo, leggibile attraverso più interpretazioni, ma per scelta scisso e forgiato con il supporto di uomini diversi per accostamento e percorso personale. In questo caso, le bordate ad effetto della sei corde di Dean Fertita, l’oscillare cremisi delle unghie di Alison Mosshart, il selvaggio imprinting della timbrica di Jack Lawrence.

Sea Of Cowards” è ridotto all’osso. Tutto ciò che si poteva scarnificare e portare alla luce (o alla tenebra?) è stato fatto. Crudo, macabro, distorto, ghignante, è il perfetto altare sacrificale dove immolare la mantenuta regolarità e gli improvvisi lampi di musicalità del suo predecessore, anch’esso grezzo e appena sbozzato ma pulsante, in parecchi istanti, di una materia facilmente flessibile nei confronti della melodia. Non che qui, in poco più di mezz’ora, vi sia un flusso di cacofonie assortite: semplicemente, il territorio in cui sguazza gran parte dei brani è tetro, sporco, spoglio dalla pulizia di cui si riveste per la maggiore suono ed attitudine blues moderni. Basta dare un’occhiata al video di “Die By The Drop”, primo singolo ufficiale, per accorgersi di quanto il mood generale, con semplici accorgimenti ed una sciatteria mirata alla base, sia sensibilmente cambiato: basta adrenaliniche spacconerie e machismi femministi da manuale dell’hard rock, il clima è più incerto, quasi esoterico.

Lascia una sensazione di sozzura evidente addosso, il disco. Spesso le canzoni sono fatte di così pochi mattoni da lasciare, se non altro, almeno un po’ perplessi (“No Horse”: il pony zoppo di monsieur Dylan è stato ufficialmente soppresso, forse). Qualche volta, invece, ed il tempo ne è d’altronde primo testimone, le idee sono grossomodo le stesse, impostazione compresa, di alcuni felici episodi di “Horehound” (“Looking At The Invisible Man”, per esempio). Dalla pentatonica, decadentismo a parte, proprio non si scampa, se non a fatica. Eppure, complice forse una compresenza vocale più accentuata di White, qualcosa decolla bene: l’iniziale “Blue Blood Blues”, hard-garage comprensivo di Led Zeppelin e Monks, l’organetto psichedelico che infesta gli assilli tantrici di “The Difference Between Us”, gli stomp furiosi di una “Gasoline” che fa a pezzi il beat rivestendolo di un’aura nera, i deliri alcolici di “I’m Mad”. A forza di denudare ciò che è già troppo discinto, si rischia di rimanere però con niente in mano: “Old Mary” pare, aldilà delle paranoie, solo un’incompiuta fatale.

La valutazione cosciente è suggerita, se non altro, dal buon senso. I side project vanno bene, qualora abbiano uno scopo. I Dead Weather, uno scopo, ce l’hanno. Per ora funziona, ma da musicisti come questi, a lungo, non basta.

 

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C Commenti

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NathanAdler77 (ha votato 6 questo disco) alle 16:25 del 6 agosto 2010 ha scritto:

La Belen Rodriguez del Rock

Nel senso che Jack "Striscie Bianche" White lo trovi dappertutto (e ora c'è in giro anche la moglie-modella canterina). Gran operaio roccherolle che qualcuno, in questi anni di vacche magre, considera perfino "geniale". L'album è carino, simpatico (a tratti sembrano una parodia dei Deep Purple) ma tanto, tanto paraculo. Come il suo artefice principale.