The Doors
The Soft Parade
Ogni grande band possiede, all'interno del proprio catalogo discografico, almeno una pecora nera. Tale etichetta non deve per forza indicare un album particolarmente brutto, ma anche semplicemente un'opera che, se paragonata alle altre, non riesce a reggerne il confronto. È in questa seconda definizione che possiamo far rientrare The Soft Parade, il quarto disco dei Doors e da molti considerato il loro meno riuscito.
Nel 1969 il gruppo era nel bel mezzo di una crisi che pareva non lasciare speranze: la figura del rozzo e alcolizzato Jimbo stava ormai prendendo il sopravvento su quella dello sciamano Jim, i concerti avevano un esito sempre più disastroso (si pensi al leggendario incidente di Miami) e gli altri tre membri non erano ormai più in grado di sopportare questa situazione.
Un calo di ispirazione era perciò inevitabile, concretizzatosi in The Soft Parade, seguito di quel Waiting for the Sun in cui già si era avvertita la mancanza della frenesia erotica del primo lavoro e del cupo misticismo del secondo, qui assenti praticamente del tutto.
Con The Soft Parade siamo infatti di fronte ad una stanca e discontinua opera pop, arricchita e pompata in alcuni brani da sezioni di archi e fiati non sempre necessarie, che alterna ottimi brani ad enormi cadute di stile. È anche il primo caso nella discografia dei Doors in cui le canzoni non sono accreditate a tutto il gruppo, ma separatamente a Morrison o Krieger (autore praticamente della metà dei testi).
Il brano più famoso e probabilmente l'apice del disco è Touch Me, forse il brano più commerciale e radiofonico del loro intero repertorio, ma allo stesso tempo un capolavoro indiscusso ed immortale, con uno dei più memorabili giri di tastiera di Manzarek. Gli altri due episodi di punta sono la lisergica Shaman's Blues, il cui titolo già dice tutto, e Do It, con uno dei testi più brevi mai scritti da Jim Morrison (Please, please, listen to me children. You are the ones who will rule the world). Tell All the People e Wishful Sinful sono due canzoni quasi splendide, rovinate però dall'arrangiamento orchestrale che le rende troppo zuccherose e stucchevoli.
Il livello delle restanti tracce è, invece, piuttosto basso.
Wild Child vorrebbe essere una Back Door Man, ma si rivela come un blues sciapo e soporifero senza avere nulla a che vedere con i ruggiti selvaggi del brano contenuto in The Doors, seguita da Runnin' Blue, pezzo da 45 giri senza infamia e senza lode e con un irritante ritornello cantato dal suo autore Krieger.
Con Easy Ride si tocca il fondo: un insopportabile e dozzinale country da pistolero nel quale Morrison si mostra al suo peggio. Semplicemente inutile.
Conclude l'album la title-track, un'ambiziosa minisuite divisa in più sezioni che inizia molto bene, con un invettiva di Jim e proseguendo in un lento e cupo passaggio che rimanda alle atmosfere di Strange Days, per poi risolversi in una cavalcata senza né capo né coda. Un esperimento fallito.
L'album venne accolto piuttosto male dalla critica di allora e anche i risultati commerciali stavano iniziando a peggiorare, cosa che portò i Doors ad abbandonare il percorso musicale intrapreso con questo disco, oltre che a rinunciare per sempre alla magia delle prime due opere, virando verso un blues-rock più grezzo che inizierà a prendere forma in Morrison Hotel (1970), per poi imporsi definitivamente con L.A. Woman (1971).
The Soft Parade è dunque un evento isolato nella discografia dei Doors, un malriuscito tentativo di rinascita artistica e anche personale che non ha ottenuto gli esiti sperati, il lavoro più controverso del gruppo che solo due anni prima aveva rivoluzionato e sconvolto il mondo della musica.
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