R Recensione

7/10

The Jeff Healey Band

Mess Of Blues

    “Muor giovane colui che gli dei amano” (Menandro)

Jeff Healey non ha mai avuto una vita facile. La primissima infanzia di giochi e scherzi, un intero futuro davanti, ciò a cui un bambino di un anno dovrebbe avere di fatto diritto. Eppure, quant’è amara a volte l’esistenza. Basta una sola parola per cancellare tutto questo: retinoblastoma. Di fatto, Jeff non ha praticamente mai potuto vedere: una malattia bastarda gliel’ha negato.

Ma l’autodeterminazione, a volte, è più forte di qualsiasi ostacolo. E se il linguaggio universale per eccellenza, la musica, può aiutarti nella tua lotta, allora può nascere davvero qualcosa di forte, un’alchimia inscindibile. Così è stato per Jeff. Con un manico di scopa per un altro manico, quello ben più nobile di una chitarra, sin da piccolissimo Healey ha imparato a suonare il blues, un genere che solo Dio sa quanto abbia dovuto combattere per ergersi al di sopra di ogni ingiustizia e schiavismo: una musica sì battagliera, ma sempre con quel che di spirituale, di positivo, di buone vibrazioni, di voglia di andare avanti, di non mollare mai. Perché chi molla è perduto.

Penalizzato dal suo handicap, Jeff non conosceva il consueto modo di imbracciare il suo strumento: perciò, in modo similare all’uso di una lap steel guitar, durante i suoi concerti lo teneva in grembo, strimpellando indifferentemente con entrambe le mani, e sviluppando così sia un’incredibile diteggiatura che una conseguente propensione ad attraversare indenne un fuoco incrociato di tapping, assoli e arpeggiati. Il primo disco, realizzato insieme al bassista Joe Rockman e al batterista Tom Stephen, si chiama “See The Light” e giunge nel 1988: un capolavoro di blues elettrico, saturo, deciso, con alcune cover (“Angel Eyes” su tutte), le classiche ballate strappalacrime ma soprattutto lui, Jeff Healey, e lei, la sua chitarra, capace di esprimersi e di ruggire la sua voglia di vita in mille tonalità diverse. E nessun revivalista dell’ultima ora potrà mai cancellare il fatto, oggettivo, dell’album che, volenti o nolenti, rimarrà per sempre nella storia della musica. “Can you see the light, can you see the light of need shinin’ in my eyes? Well, you know I need you baby, and I sure ain’t gonna tell you no lies”, cantava con la sua voce emozionata l’artista canadese nella title-track, splendido artefatto di manifattura rock e vertice dell’intera opera. Una luce che non avrebbe potuto vedere, ma che niente e nulla al mondo poteva impedire di accarezzarlo.

Solo in seguito Healey decise di abbandonare, seppur parzialmente, quei territori che gli avevano procurato così tanto successo e, accolta la tromba come suo nuovo strumento base, si inseriva con classe e rispettosa cautela alla musica dei maestri, a quel misterioso, primordiale jazz degli anni ’20. “Adventures In Jazzland” del 2004 e “It’s Tight Like That” del 2006, entrambi dischi di sole cover, venivano salutati con entusiasmo da critica e pubblico.

 

Sembrava già tutto scritto. Ma chi nasce tondo, non muore quadro. Perciò, chiamati a sé gli amici di un tempo, quelli dei successi –tanti!- e delle gioie –tante!-, Jeff torna all’ovile. E omaggia quei bluesman di un tempo da cui anche lui e la sua cricca hanno tratto in seguito l’ispirazione morale e musicale. “Mess Of Blues”, infatti, non rompe il silenzio che da otto anni cala sulla sua produzione di inediti (l’ultimo è “Get Me Some”, del 2000), ma si limita a chiudere il sacrale cerchio che il canadese aprì sei anni orsono.

Tecnica sopraffina, come sempre messa al servizio del cuore e delle emozioni, voce un po’ roca, canzoni realizzate la metà in studio e la metà dal vivo (applausi compresi). Il parco artisti è molto vario: si va da Dave Murphy a Sonny Thompson, da Mel London a Robbie Robertson. L’unico denominatore comune è il fuoco del rock’n’roll, che divampa ardente in ognuna di queste, stupende dieci cover. Chi ha già qualche dimestichezza con gli artisti sopra citati, troverà sicuramente commovente la maniera struggente e viscerale in cui Healey riscalda la sua sei corde, per dar vita a trame musicali calde ed avvolgenti. Chi, invece, al contrario si avvicina per la prima volta a quest’enorme bacino, sappia che si trova probabilmente di fronte ad uno dei più grandi chitarristi della storia, capace di essere allo stesso tempo virtuosistico e appassionato, anche in virtù del suo grave handicap (in barba agli “amici”, si fa per dire, Malmsteen e Batio, giullari bravi solo a recitare la parte dei draghi consumati senza un briciolo di sentimento). Blues, rock, country, rockabilly, i mattoni della musica moderna, qui si incontrano per l’ennesima volta, come i tanti affluenti del Mississippi, e danno vita ad un sinuoso delta, di quelli che si sentivano cinquant’anni fa, sporchi ed alcolici. Poco altro da dire, se non che l’ascolto è consigliato a tutti, puristi e non, e che “Mess Of Blues” merita l’acquisto solo per il rifacimento di “How Blue Can You Get” (Leonard Feather, con un Hammond semplicemente da pelle d’oca), il two-step strampalato di “Jambalaya”, del sempreverde Hank Williams e, soprattutto, una “Like A Hurricane” di Neil Young, con assolo in coda, intensissima per livello emozionale.

Merita attenzione, lunga vita e successo, “Mess Of Blues”. E tanto. Ma il suo principale fautore non ne potrà mai godere i frutti.

Già da tempo, il canadese appariva in pubblico affaticato, sofferente, la silhouette, un tempo snella, di molto appesantita. Le volèe rimanevano le stesse, la resa dal vivo anche, ma si intuiva che qualcosa non andava come doveva essere. Il suo coraggioso duello con il tumore si stava lentamente dirigendo verso una fine che, da sempre, tutti avrebbero voluto scongiurare. Purtroppo, il 2 marzo 2008, un paio di settimane prima l’uscita del disco, Norman Jeffrey Healey si spegne, per sempre, a causa dei postumi di una bronchite direttamente collegata al progressivo peggioramento del cancro. Avrebbe compiuto a breve quarantadue anni. Con la sua morte, oltre a sciogliersi definitivamente la celeberrima Jeff Healey Band, cala una pesante pietra tombale su uno dei protagonisti meno considerati del rock’n’roll degli ultimi vent’anni.

E, insomma, quella che, almeno in partenza, era nata per essere la recensione di “Mess Of Blues”, si è lentamente trasformata in un vero, sentito omaggio ad un personaggio nato per vincere. Tutto il resto non ha importanza. Passeranno gli anni, forse i decenni, e NME vi ordinerà di cambiare il look del vostro armadio con la frequenza della band britannica del momento: ma, in ogni caso, la musica di Jeff Healey rimarrà. Indelebile. Incancellabile. Indifferente alle ferite del tempo.

Perché, checché ne diciate, questa è la musica dell’anima. E Jeff Healey ne è stato profeta. Amen.

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REBBY 7/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 18:59 del primo ottobre 2008 ha scritto:

Recensione bellissima Marco (ma sei sicuro che

Like a Hurricane sia di Neil Young e non di Bob

Dylan?). Provvederò appena possibile ad ascoltare

l'album in questione.

Colgo l'occasione per comunicarti che 2 miei amici

ti hanno eletto (su mio suggerimento) consulente

per le nuove uscite metal ed affini (per quel che

costi ...). Fai a modo mi raccomando che poi me

le fanno ascoltare (prossimo ascolto Cult of Luna)

Marco_Biasio, autore, alle 21:49 del primo ottobre 2008 ha scritto:

RE:

Ciao Rebby, grazie dell'apprezzamento! Ahahah, onorato di essere il pusher metallofilo di (s)fiducia della tua cerchia di amici! Cercherò di venire incontro anche alle tue esigenze, con roba più accessibile! Per quanto riguarda "Like A Hurricane", l'artista citato nei crediti è Neil Young, non Bob Dylan... posso ovviamente anche sbagliarmi sulla paternità del pezzo. Chi sa parli!

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 10:39 del 2 ottobre 2008 ha scritto:

Marco ho controllato io e hai ragione tu. Mi

ricordavo un brano di Dylan dall'album Desire

(tra l'altro quello che mi piaceva di più) che

avevo in cassetta in gioventù (forse nel lapsus

c'entra anche la mitica Like a rolling stone !?):

Hurricane. Il fatto è che io scrivo sempre di getto e non avendo ancora ascoltato la cover in

questione ... avrei dovuto aspettare. Oltretutto

la canzone di Neil Young è contenuta nell'album

Live rust che io possiedo in vinile.

fabfabfab alle 12:01 del 2 ottobre 2008 ha scritto:

RE:

Scusate l'intromissione, ma il pezzo di Dylan si chiama effettivamente "Hurricane" e racconta la vera storia di Rubin "Hurricane" Carter, grande campione di boxe che si è fatto 20 anni di galera per una falsa accusa di omicidio

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 15:48 del 11 ottobre 2008 ha scritto:

Non si può volere male ad un uomo così sfortunato.

Ascoltata con attenzione quest'opera definitiva ha inevitabilmente in Hurricane il pezzo che mi cattura. Il resto è un misto di rock blues elettrico, rock & roll e country & soul eseguito con perizia. Durante i primi brani mi é venuto in

mente J. Mayall e i suoi giovani chitarristi: Page, Clapton, Taylor, Beck e soprattutto Peter

Green, che col suo The end of a game, ma questa è

un'altra storia ...