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R Recensione

8/10

Tom Waits

Bone Machine

… e se canto / tu sei la mia voce

(E.E.Cummings)

Prova a scappare, raccomandati ai santi / Ma dovremo alfine morir tutti quanti"

(da “La Sposa Cadavere” di Tim Burton & Mike Johnson)

La voce è uno scrigno che custodisce un segreto: il canto. Il segreto del canto risiede nell’intima armonica corrispondenza fra il soffio chi lo pronuncia e il battito del cuore di chi lo ascolta. Mai come nel caso di Waits la massima di Mc Luhan si rivelerà così fondata. Per lui il medium è assolutamente il messaggio e la voce è tutto. Il suo contributo imprescindibile alla musica di fine secolo.

Per lui, parafrasando Nietzsche, senza il canto, la vita (e l’arte) sarebbe un errore. Ciò potrebbe sembrare irriguardoso nei confronti dei suoi testi, impressionanti cicli narrativi composti di associazioni libere e di immagini ossidriche, primitive, palpitanti graffiate in fossili di carbone, o della sua musica, un delta impetuoso in cui confluiscono tutte le correnti della tradizione popolare bianca e nera (swing, blues, gospel, musical, cabaret, jazz e la lista potrebbe continuare fino a subissarci prima della fine di questa pagina), ma senza la sua voce (e il suo canto) staremmo qui a parlare di un’altra persona, una per cui varrebbe la pena spendere si e no la metà delle parole che ci martellano l’emisfero destro del cervello.

Per Waits esistono prima di tutti gli uomini, i personaggi, anzi l’uomo, il personaggio, l’individuo anarchico e dissidente, la cui lugubre, torbida, invadente, chiassosa presenza è del tutto irriducibile alla fredda, disciplinata tipologia di una vita sociale. Gli uomini possono fingere, ma dai loro frutti li riconoscerete. L’uomo di Waits è disadattato, randagio, reietto eppure ebbro d’allegria immotivata e irresistibilmente attratto dalla vita nella sua accezione più sozza, biologica, primitiva e malfamata. E la sua voce (e il suo canto), in questo senso, non si rassegna a rimanere prigioniera nell’ottica di un io-narrante, di un supervisore onnisciente, ma cangiante, mercuriale, immanente rimbalza dalle paludi dell’Es fino al pulviscolo astrale del Super-io, insuffla (in vino) veritas ai protagonisti delle canzoni, ne rapprende gli sparuti profili fisiognomici con densa tintura ad olio e poi, improvvisamente, li abbandona per immergersi altrove nel giro di poche battute.

Una voce che può essere irta come la corazza d’un armadillo o dolce e granulosa come la polpa rosea d’un fico spezzato; può essere il baritono del Falstaff, il falsetto d’un ubriaco che imita le smorfie d’una battona, un vortice di torba sbuffato da un mangiatore di spade di fuoco o il latrato cavernoso nella gola graffiata di pianto d’un trovatello rinchiuso in un istituto per l’infanzia. Una voce che non si identifica semplicemente con i personaggi interpretati (come nel metodo Stanislavskij): LEI è, quei personaggi stessi, li richiama in vita sulla scena, ne introietta l’energia psichica alla stregua d’una metempsicosi (come quelli “in cerca d’autore” del Pirandello).

Tutto questo per dire che Bone Machine è soprattutto e più d’ogni altro il disco della voce. Della sua voce. La prima opera inedita dai tempi di Frank’s wild years (1987), cinque anni in cui il prodigo Tom ha gigioneggiato fra apparizioni cinematografiche (“La leggenda del Re Pescatore” e “Dracula di Bram Stoker”, ad esempio, oltre alla sceneggiatura di “Taxisti di notte”, scritta con la moglie Kathleen Brennan che anche qui risulterà coautrice di alcune canzoni) e progetti teatrali (The black Rider di Bob Wilson, che vedrà la luce solo l’anno successivo).

Un album registrato al Prarie Sun Recording di Cotati in California, immerso nell’atmosfera di un particolare studio conosciuto come “La sala d’aspetto”. Una stanza in cui, per ammissione dello stesso Waits, “non c’era nulla di nulla, a parte il cemento sotto i piedi e un termosifone alla parete”, scelta appositamente per sfruttare le particolari tonalità di eco e di rimbombo con cui la voce riverberava da un angolo all’altro.Fin dal titolo, infatti, il nuovo lavoro suggerisce un grado di sottrazione sonora terribilmente spinto: un essiccatoio, una lama di conceria, una mola che riduce in briciole la cartilagine dell’accompagnamento (qui, peraltro, arricchito dalla partecipazione di ospiti d’eccezione come Keith Richard, David Hidalgo dei Los Lobos e, nel brano d’apertura, persino Les Clypool dei Primus, oltre ai fidi Ralph Carney, Larry Taylor e Brian Mantia) e l’ossatura dei generi musicali di riferimento (che sono quelli di sempre, con una leggera prevalenza di country e blues), assicurando la massima libertà espressiva al Waits cantante che qui raggiunge alcuni dei vertici assoluti nel suo manierismo. Bone Machine, inoltre, estremizza il concetto di call and response moltiplicandolo attraverso tutto il volume dell’opera, come una rete di fili invisibili, di segrete corrispondenze “baudeleriane”, che annodano i singoli brani specularmente, per analogia o per contrasto.

Così lo spiritual antropofago su scheletro voodoo di Earth die screaming, in apertura, si scioglie nel commovente coro finale di That Feel (arido gospel del deserto per banjo, trombone, charleston e cassa); il cool jazz per piano e trombone di Dirt in the ground, gravido di fatalismi noir e rimandi a Chet Baker, si corruga nello slam poetry da cantina, con rintocchi di secchi scrostati e bottiglie vuote (e brevi inserti di Moog), di The ocean doesn’t want me. Such a dream, sghembo e sincopato “mangiafuoco-blues”, digrigna i denti al cospetto della “stonesiana” Jesus gonna be here, entrambe sconvolte dall’uragano incandescente scatenatosi nel diaframma di Tom.

L’asciutto pow wow pellerossa di All stripped down (con la geniale equazione fra uno spogliarello (strip) e il giudizio universale che l’autore sottolinea nel suo falsetto farsesco) ha il suo controcanto nel twang lunare della cow-boy ballad Black wings (che non per nulla si apre con una citazione dall’Antico Testamento, “Oh take an eye for and eye / a tooth for a tooth / like they said in the Bible”, e risponde al falsetto con il suo opposto: grevi vocalizzi di gola, scabri e consunti come i tagli sulla corteccia d’un albero). Il rock-blues da faglia di Sant’Andrea di Goin’ out west (fra il Morrison di L.A. Woman e Captain Beefheart, con twang e colpi di cassa affilatissimi), una velenosa parodia della bella vita hollywoodiana e dei teen idol che ciclicamente la infestano, si ammansisce nell’honkytonk agrodolce di Who are you? (con spremiture liriche degne di Saroyan e William Carlos Williams).

Il tenero country da camera (per piano e violino) di A little rain, con la sua sfilata di freak alla Todd Browning e gli sbiaditi ritagli di murder ballads appiccicati con la saliva, si specchia nel ruvido baritono bucolico di Whistle down the wind. Ho lasciato volutamente in coda i miei due pezzi preferiti, le mie piccole perversioni sentimentali: Murder in the red barn, ninna nanna da incubo per blue note di slide e tamburi propiziatori (con perle di poesia hobo come “Road kill has its Seasons / it’s possum in the autumn / and farm cats in the spring” e ancora “when the ground’s soft diggin’ / and the rain will bring all the gloom / there’s nothing wrong with a lady /drinking alone in the room”) e sopratutto I don’t want to grow up, straordinario esempio di troglo-punk  waitsiano” (non per nulla sarà ripresa anche dai Ramones in Adios amigos in una versione trascinante ma paradossalmente meno punk e maligna), per ritmica scordata e fuzz elettrico di fondo, in cui, come in un transfert di rabbia adolescenziale, trovano finalmente sfogo tutte le frustrazioni di un’infanzia traumatica (“Well, when i see my parents fight / I don’t want to grow up / They all go out and drinking all night / and i don’t  want to grow up / (…) I don’t want to put no money down / I don’t wanna get a big old loan / work them finger to the bone / fall in love, get married then boom…”).

V Voti

Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 17 voti.
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lev 9/10
plaster 10/10
luca.r 9/10
bps74 8/10
cerra 9/10
ThirdEye 9,5/10

C Commenti

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Lezabeth Scott (ha votato 9 questo disco) alle 18:10 del 11 gennaio 2008 ha scritto:

Questa, SI, che è una RECENSIONE! Waits e Coacci insieme, il massimo! Chapeau!

Lizzie

Jokerman (ha votato 8 questo disco) alle 1:55 del 10 settembre 2008 ha scritto:

Bella recensione... per uno degli album più belli di The Loser Voice : Tom Waits.

The ocean doesn’t want me è difficile da dimenticare.

A Milano ha fatto faville!

lev (ha votato 9 questo disco) alle 13:10 del 21 gennaio 2009 ha scritto:

finora è la più bella cosa che ho ascoltato di tom waits. un disco splendido!!!

Hexenductionhour (ha votato 8 questo disco) alle 22:54 del 21 gennaio 2011 ha scritto:

mi associo alla recensione,Tom Waits mi ha sempre affascinato,sia per la sua particolarissima voce da "cane randagio" ma anche per lo stile unico e a volte eccentrico delle sue canzoni,però purtroppo non riesco mai ad ascoltare un suo album completo...anche perchè dovrei dedicarci tempo proprio ad "ascoltarlo" e ad assimilare i testi e le sonorità...percepire ogni sfumatura,per adesso (purtroppo forse) sono per cose un pochino più immediate.

Come voto gli dò 8 proprio perchè penso che di meno non meriti...magari col tempo riuscirò anche a rivalutarlo maggiormente.