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R Recensione

8/10

Pineda

Pineda

Prendono di sorpresa questi Pineda. Il solo conoscere i nomi dei musicisti coinvolti in questa formazione (Marco Marzo Maracas, chitarrista e ideatore del progetto, Floriano Bocchino, alle tastiere e al piano Rhodes e Umberto Giardini aka Moltheni alla batteria) non aiuta a indovinare la direzione in cui soffia il vento. Ecco, lasciate ogni aspettativa di post-rock o voi che entrate. Nonostante il forte legame che lega Umberto Giardini alla “scena di Chicago” e la stima, mai celata, che lo unisce a John McEntire dei Tortoise, stavolta la strada intrapresa va ad impregnarsi di quel “liquido seminale” che i tardi anni Sessanta e i primissimi Seventies hanno prodotto in ambito Progressive. Forse sarebbe più lecito parlare della Scuola di Canterbury (leggi la filiazione più creativa e meno ridondante del Prog di quegli anni). È la lezione proveniente da quella provincia del Kent che in questo disco sembra vivere di nuova linfa e di nuove idee: e così sonorità chiaramente riconducibili a Soft Machine, Gilgamesh, Hatfield & The North, National Health (al cui retaggio si riannoda Marco Marzo) stringono alleanza con la fazione più “matematica” e più affine al jazz sperimentale del post-rock statunitense (Tortoise, The For Carnation, Don Caballero, Windsor For The Derby). In realtà questo gemellaggio sonico era già tutto nel DNA di queste band dei Nineties: vedere dal vivo i Tortoise (momento in cui la loro esperienza si fa ben più esaltante e “grassa” rispetto ai perfetti, studiatissimi lavori in studio) spinge naturalmente a ricondurre la memoria verso ciò che gli Hatfield & The North avevano fatto vent’anni prima. Nei Pineda non manca una matrice psichedelica in grado di innervare l’intero lavoro e particolarmente evidente nelle chitarre.

È strano pensare come il post-rock, figlio di quella istanza post-punk di decapitazione dei cliché del rock, chiuda il cerchio facendo pace con alcuni tra i più geniali dei propri “padri putativi”, che pure dopo il ‘78 sembravo meritevoli solo di una epurazione culturale. Quando invece si spegne la verve rivoluzionaria, si compie quell’autocritica necessaria a capire che non tutto ciò che è nuovo è davvero innovativo. E allora, a chi passa questa maturazione evolutiva si dischiude la grande possibilità di (ri)scoperta del proprio passato, delle avanguardie che furono e che necessitavano di essere approfondite prima di essere mandate al patibolo solo con l’ignorante accusa di essere “vecchie”. Ecco, da una persona attenta come Umberto Giardini non poteva che esserci questa voglia di rimessa in discussione della propria identità, senza rinnegare nulla, ma ridando rilievo a ciò che davvero contava e conta. E ripartire da lì.

L’album è splendido ed è una gran gioia sapere che sia nato in Italia (in cui pure c’è stata una tradizione progressive forse non così direttamente riconducibile a ciò che accadde a Canterbury, ma qualitativamente altissima… andatevi a ripescare le improvvisazioni live della PFM nei ’70): da anni non trovavo questa profonda attenzione a quella musica strumentale che scaturiva attraverso intense jam e senza passare per il tramite di uno studio a tavolino. Mi verrebbe di chiamarlo rispetto, se non fosse per il senso di reverenziale timore a cui questa parola tende ad indurre: stavolta, paradossalmente, proprio a partire da un tale “rispetto” si genera una struttura sonora non così celebrativa o pedissequa nei confronti delle formazioni citate. Piuttosto viene compiuto questo necessario lavoro di rivisitazione senza cercare di trasporre suoni e idee semplicemente intercettandole e filtrandole attraverso l’elettronica. Qui si suona e si suona veracemente!

Dovessi parlare dell’album in dettaglio, non tralascerei alcuna traccia: vi basti sapere che una traccia così "cerebralmente emotiva" come Touch Me (in grado di fondere perfettamente e sistematicamente le diverse anime dei Pineda), non la sentivo da tempo. Un disco, e un gruppo, davvero “Avant(i)-retrò”.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 3 voti.
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Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 11:26 del 5 settembre 2011 ha scritto:

Uau, che bel disco. Niente di nuovo o di speciale, ma solo canzoni davvero ben scritte. "Give Me Some Well-Dressed Reason" e "Touch Me" in particolare, trait d'union fra jazz, post rock, prog settantiano e Canterbury attirano tantissimo. Recensione doverosa.

tramblogy alle 19:12 del 5 settembre 2011 ha scritto:

Uuuhmmmmmmmmm.....mio!!