Robert Wyatt
Rock Bottom
Nell’inverno del 1972 Robert Ellidge, meglio conosciuto come Robert Wyatt, si reca a Venezia insieme alla sua fidanzata Alfreda Benge. Lei ed alcuni amici devono girare un film nella città lagunare e Alfie, questo è il nomignolo affibbiato da Robert alla sua ragazza, per tenerlo occupato gli compra una tastierina “con un particolare vibrato, che luccicava come l’acqua che ci circondava”, come racconta lo stesso Wyatt. Su una piccola isola di fronte alla laguna Robert comincia a scrivere della musica utilizzando proprio quella tastierina. Wyatt ha chiuso da qualche anno l’esperienza come batterista dei Soft Machine, una delle più importanti formazioni del rock inglese, con la quale ha sfornato, tra gli altri, l’album “Third”, probabilmente il miglior disco del prog-rock britannico, regalando anche l’epica “Moon in June”, senza dubbio il capolavoro assoluto (nonché una specie di canto del cigno) del genere che aveva reso famosi King Crimson, Yes, Genesis e altri gruppi.
Dopo la dipartita dai SM, Wyatt s’è messo in proprio, incidendo un disco superbo, “End of an Ear”, dove dimostra le sue doti di grande compositore e prepara il terreno, con grandi composizioni (si veda “Las Vegas Tango”), per la sua lunga carriera solista, che lo consacrerà come maestro di quel genere chiamato “Canterbury music” o “scuola di Canterbury”, fenomeno musicale tra i più interessanti di sempre che mischia rock, jazz, elettronica, avanguardia, dadaismo e chi più ne ha più ne metta. Poi Robert, con alcuni amici di sempre, forma i Matching Mole, un nuovo gruppo (notate la sottigliezza: si pronuncia quasi come “machine molle”, che in francese vuol dire “macchina morbida”, cioè “soft machine”). Con la band incide due ottimi dischi, “Matching Mole” e “Little Red Record”, e poi la band si scioglie, ma pare sulla via della reunion nell’autunno del 1972.
Torniamo a Venezia, dunque: Robert Wyatt è in questa vecchia casupola sulla Giudecca, e prepara la musica per il probabile terzo lavoro della band. Con le idee raccolte a Venezia, Robert torna nella primavera del 1973 nella sua Londra, dove riorganizza il gruppo per sviluppare la musica già in parte scritta in Italia. Scrive le parole per alcuni brani, “Alife”, “Sea Song”, “A Last Straw”, nell’appartamento di Alfie. Nel giugno dello stesso anno, in una bella serata precedente alla prima prova della band, Wyatt si trova in un party, dove ha bevuto parecchio, tanto che cade da una finestra del quarto piano. Non muore, ma la sua spina dorsale si spezza e, da quel momento in poi, Robert resterà sulla sedia a rotelle. Trascorrerà otto mesi in una clinica, e imparerà a convivere con la sua condizione anche grazie al rapporto con altri sventurati come lui. Wyatt riflette sul fatto di non poter mai più essere batterista, ma allo stesso tempo pensa che potrà affrontare la propria musica con più libertà, anzi con un nuovo tipo di libertà: “Non avevo più la necessità di preparare musica per un gruppo fisso, dovevo concentrarmi sulle registrazioni, e dovevo cantare di più. Potevo scegliere musicisti differenti per canzoni differenti. Non avevo più bisogno di avere gli stessi strumenti per ogni canzone”, dirà in seguito.
È proprio così che la musica composta a Venezia assume una veste nuova: Wyatt comincia a svilupparla proprio in ospedale, “tra visitatori, operazioni e trambusto ospedaliero”, suonando su un pianoforte che si trova nella sala dei visitatori. Dopo aver lasciato l’ospedale trova una nuova casa in un cottage, e comincia a registrare all’inizio del 1974 con uno studio mobile della Virgin. Il 26 giugno 1974, giorno del 21° anniversario dell’attacco a Moncada, prima azione della rivoluzione cubana, esce così “Rock Bottom”, e Wyatt già che c’è sposa Alfie.
Per capire “Rock Bottom” occorrono due precisazioni. Uno: il titolo allude al “fondo” di qualcosa, al fondo probabilmente di quell’oceano dipinto sulla splendida copertina utilizzata nella ristampa del 1998, e questo è un fatto importante, come vedremo (ma “rock bottom” potrebbe significare, letteralmente, “il fondo del rock”). Due: è impossibile pensare che la musica del disco, pur nata prima dell’incidente, non sia stata influenzata dall’evento. Infatti “Rock Bottom” è una delle riflessioni più profonde sulla vita, sulla morte, sulla condizione umana e, soprattutto, è un immenso atto di amore per la vita stessa, una smisurata confessione di un uomo che si accorge di essere solo, diverso, ferito dalla vita e da un banale quanto evitabile incidente, ma comunque tremendamente vivo.
Ma dicevamo dell’oceano, del mare, degli abissi. “Rock Bottom” è prima di tutto l’immersione di un uomo in se stesso, nei suoi abissi; questa immersione ci viene trasmessa attraverso l’immagine del mare, così ben rappresentata in copertina, dove ci sono due figure, una maschile e l’altra femminile, che immobili scendono nelle profondità dell’oceano. E così il disco si apre con una delle canzoni più struggenti di sempre, la “Sea Song”, la “canzone del mare”. Tastiere, tamburello, voce e basso sono gli unici quattro ingredienti del brano. Le tastiere tracciano un respiro continuo, che caratterizzerà tutto il disco, con le alterazioni derivanti dal diverso punto dell’oceano in cui ci si trova. In “Sea Song” sembra che l’Uomo sia solo di fronte all’oceano, declamando parole d’amore alla sua amata prima di tuffarsi nella propria pazzia, negli abissi di se stesso.
L’invocazione di “Sea Song” si conclude con una serie di voci che si rincorrono, come un respiro preso a pieni polmoni prima di immergersi. “Non siamo soli”, dice Wyatt prima di immergersi nelle acque in “A Last Straw”, un jazz a capofitto che si apre con un apparentemente innocente giro di basso, al quale fa seguito un repentino cambio di umore, come un primo segnale della paura di trovarsi a fare i conti con il proprio io. Qui il respiro aumenta, in un’apnea che sembra placarsi soltanto con le scomposte note di piano che concludono la canzone. Ma è un falso allarme, perché la marcia ricomincia. Si scende sempre più in basso con “Little Red Riding Hood Hit the Road”, una cavalcata che simula quasi un’asma, con la tromba impazzita di Mongezi Feza sovraincisa più e più volte, mentre Wyatt declama i suoi non-sense (“Tu sei stata così gentile, lo so. E allora perché ti ho fatto del male? Non volevo farti del male. Ma continuerò a provarci, e sono sicuro che anche tu lo farai”); Robert sembra aver perso la testa, si chiede cosa succede intorno. E sa benissimo cosa succede, perché la paura più grande deriva dall’incontro-scontro con il più grande e il più sconosciuto dei nemici di ogni uomo: la propria coscienza, il proprio “fondo”, quello che ospita cose che noi nemmeno conosciamo di noi stessi, cose pronte ad esplodere in ogni momento. Ma poi Wyatt tocca il fondo, e il respiro rallenta, perché riesce a trovare nel fondo di se stesso almeno un motivo per respirare, e quindi per vivere. Ed è proprio il respiro di Wyatt, con una delle trovate più irrazionali e toccanti della musica popolare, a scandire per tutta la durata di “Alifib” il nome della donna amata. Su questo respiro quasi infantile, da neonato che riposa, Wyatt canta melodie di un folle innamorato, che poi sono due termini difficilmente scindibili. “Alife mia dispensa”, dice con una specie di non-sense Wyatt. Dopo questa straordinaria pulsazione di tastiere, respiri e declamazioni d’amore, comincia la risalita. “Alife” è il brano gemello di “Alifib”: quest’ultima è distesa, rilassata, da pronunciare ad occhi chiusi, coi piedi ben piantati sulla sabbia che sta sul fondo dell’oceano; “Alife” invece è l’impazzita dichiarazione d’amore, la stessa del brano precedente, declamata stavolta con impostazione brechtiana, con folle serietà.
La sensazione è quella di un uomo che tenta di parlare sott’acqua per essere sicuro che la sua donna riuscirà a sentirlo e che non lo abbandonerà nella risalita, nonostante egli le stia mostrando la parte più profonda di se stesso: così accade, perché è proprio Alfie a rispondere “Non sono la tua dispensa, io sono Alife, la tua guardiana”. Così Wyatt può riemergere dagli abissi, dove ha trovato la sua pazzia e quella di ogni uomo, ma anche la sua felicità, la sua dignità. Così può congedarsi con l’ultimo atto di follia: “Little Red Robin Hood Hit the Road” si apre su un ennesimo non-sense di Wyatt, sostenuto da una superba batteria marziale, da un mellotron che suona accordi profondi e, soprattutto, da uno straordinario basso (via il cappello davanti a Richard Sinclair), elastico e incisivo. “Nel giardino dell’Inghilterra le talpe morte giacciono dentro le proprie buche. I tunnel senza uscita si sfaldano nella pioggia, sotto i piedi. Non è una vergogna?” dice Wyatt. Poi entra la chitarra di Mike Oldfield, che suona note lunghe e strazianti, e prepara il campo ad una specie di mantra ripetuto da Wyatt, mentre il resto della band lo segue nella pazzia. La confusione scompare, si esce dall’acqua e resta soltanto il suono di una viola, melodico e ripetitivo. Improvvisamente entra una voce, che in realtà aveva già fatto capolino in precedenza: è quella di Ivor Cutler, che nel disco suona la concertina. Cutler recita un ultimo non-sense, metà chiesastico e metà teatrale, che consiste in una serie di frasi pronunciate nientemeno che da una talpa che “riflette sulla vita dell’uomo delle autostrade”. L’ultimo suono che sentiamo è una specie di risata, che conclude il disco in maniera ancora più insensata. È la risata della consapevolezza, forse, o della felicità riconquistata dopo aver riassaporato le cose di tutti i giorni, come quando si torna a casa da un lungo viaggio.
E Wyatt, senza dover fare il “marinaio stellare” come Tim Buckley, ha visitato il più sconosciuto dei mondi: l’anima.
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