Opeth
Sorceress
La tendenza alle facili similitudini, ne converrete, funziona ancora come discriminante fra una pessima ed una buona recensione. E mi si creda: ho provato in tutti i modi, un ascolto dietro laltro, a non cadere in un tranello sinestetico che ne sono convinto, non fosse altro per la sua sfacciata evidenza è stato piazzato ad hoc da quel mattacchione di Mikael Åkerfeldt. Ammettere da subito di non esserci riusciti, per alcuni, equivarrà automaticamente ad un fallimento: per altri spero la maggioranza si tratterà di onestà intellettuale. Eppure, sfogliando delicatamente, settimana per settimana, le pagine di Sorceress come si trattasse di un prezioso volume di antichità, un oggetto sacro da maneggiare con cura, il simulacro intoccabile della grande band che furono gli Opeth , chi scrive vi ha visto, sempre e comunque, la presenza di un pavone. Sono uccelli maestosi, nobili e variopinti, i pavoni. Di più: sanno di esserlo. Per conquistare ed ammaliare sfruttano abilmente le notevoli caratteristiche estetiche donate loro da madre natura: ma si tratta, in ultima analisi, di una seduzione vacua, autoreferenziale. Dietro lapparenza, nulla, o quasi. Chi ha avuto occasione di rimanere a stretto contatto con i pavoni sa bene quanto possano essere fastidiosi, rumorosi, aggressivi nei confronti dei propri simili e degli estranei.
Ventisette anni dopo la loro formazione, gli Opeth si rimirano nelle macerie della loro parabola stilistica. Il dodicesimo full length della carriera degli svedesi rinuncia a qualsiasi tentativo di andare oltre i propri limiti: non vi sono i grossolani scivoloni di Heritage, ma nemmeno le superiori ambizioni (frustrate) di Pale Communion. Vè solo listinto di sopravvivenza, che spinge a ripararsi sotto la grande ala (ahem ) protettrice del classic rock, qualsiasi sia oggi il significato di questo abusatissimo termine. Sorceress non ha il fiuto danzante del predatore né il coraggio del pioniere. È un pavone, e da bravo pavone rimane fermo, immobile, compiaciuto, pronto a fare la ruota se adulato e a difendere strenuamente il proprio territorio quando attaccato. Le acustiche barocche di Persephone (sostituite, in Persephone (Slight Return), da un fragile valzerino pianistico, lo stesso che si ode in apertura alla monolitica decalcomania Rush di Era) marcano lappartenenza al folk misterico inglese degli anni 60, con tanto di solenne spoken word di Pascale Marie Vickery: quando le spire mortifere delle tastiere della title track iniziano poi a srotolarsi, il richiamo congiunto ai complicati arzigogoli di The Devils Orchard e Eternal Rains Will Come è pressoché automatico. Contorsionismi buttati al vento: il brano si rivela essere un hard-goth di nessuno spessore, arricchito da pesanti parentesi strumentali che, più che alla narrazione, si rivelano funzionali al minutaggio e allego dei musicisti coinvolti.
In passato, il coinvolgimento emotivo del destinatario era essenziale per godere dei grandi classici. Aldilà della tecnica strumentale e delle innumerevoli, singole invenzioni che costellavano dischi come My Arms, Your Hearse, Still Life o Blackwater Park, le indiscutibili profondità toccate dal gruppo spingevano lascoltatore a reagire attivamente, con trasporto. Oggi ed è forse questo il risvolto peggiore della nuova, regressiva fase degli Opeth allascoltatore non viene richiesto nulla. Ognuno rimane al proprio posto: il musicista suona (molto bene, sempre meglio, va riconosciuto, ma è unosservazione lapalissiana), lappassionato osserva e applaude. Non ci si può aspettare molto di più da chi dichiara, candidamente, che suonare oggi Demon Of The Fall è nientaltro che un castigo A proposito di corsi e ricorsi storici, se il termometro qualitativo di un disco di Åkerfeldt e compagni si misura, soprattutto, dalla fattura delle ballate in esso contenute, il giudizio su Sorceress non può che rimarcare, per lennesima volta, la distanza abissale che intercorre con il loro ingombrante lascito. Solo interessante la parentesi etno di The Seventh Sojourn, dove larrangiamento per archi e luso esteso di acustiche cajun e percussioni lignee (cajón, woodblocks) avvicina curiosamente gli Opeth agli Zeppelin post-Zoso da un lato, agli Orphaned Land dallaltro (non dimenticando, nel mezzo, la coda di vecchi classici come Closure): ma già Will O The Wisp è una torch song jethrotulliana (con estese propaggini solistiche blues-oriented, come in un Damnation svuotato di calore) senza particolari guizzi, mentre il minimalismo strutturale di Sorceress 2 rivisita fuori tempo massimo Coil. La romanza di A Fleeting Glance lavora alacremente di contorno (intarsi acustici a braccetto con cembali vagamente kitsch), sfoderando echi di Ghost Reveries nelle sporadiche staffilate distorte.
Di formazioni che devolvono lintera propria esistenza al revival rock il mondo è ricolmo. Alcune riescono splendidamente nel loro compito. Ma un conto è nascere con un determinato obiettivo, un altro aggiustarlo arbitrariamente in corso dopera. Scrivendo Morningrise, gli Opeth sognavano forse di diventare quelli di Sorceress? Ascoltando linterminabile sbrodolamento prog di Chrysalis, mi permetto di dubitarne.
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