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R Recensione

5/10

Opeth

Sorceress

La tendenza alle facili similitudini, ne converrete, funziona ancora come discriminante fra una pessima ed una buona recensione. E mi si creda: ho provato in tutti i modi, un ascolto dietro l’altro, a non cadere in un tranello sinestetico che – ne sono convinto, non fosse altro per la sua sfacciata evidenza – è stato piazzato ad hoc da quel mattacchione di Mikael Åkerfeldt. Ammettere da subito di non esserci riusciti, per alcuni, equivarrà automaticamente ad un fallimento: per altri – spero la maggioranza – si tratterà di onestà intellettuale. Eppure, sfogliando delicatamente, settimana per settimana, le pagine di “Sorceress” – come si trattasse di un prezioso volume di antichità, un oggetto sacro da maneggiare con cura, il simulacro intoccabile della grande band che furono gli Opeth –, chi scrive vi ha visto, sempre e comunque, la presenza di un pavone. Sono uccelli maestosi, nobili e variopinti, i pavoni. Di più: sanno di esserlo. Per conquistare ed ammaliare sfruttano abilmente le notevoli caratteristiche estetiche donate loro da madre natura: ma si tratta, in ultima analisi, di una seduzione vacua, autoreferenziale. Dietro l’apparenza, nulla, o quasi. Chi ha avuto occasione di rimanere a stretto contatto con i pavoni sa bene quanto possano essere fastidiosi, rumorosi, aggressivi nei confronti dei propri simili e degli estranei.

Ventisette anni dopo la loro formazione, gli Opeth si rimirano nelle macerie della loro parabola stilistica. Il dodicesimo full length della carriera degli svedesi rinuncia a qualsiasi tentativo di andare “oltre” i propri limiti: non vi sono i grossolani scivoloni di “Heritage”, ma nemmeno le superiori ambizioni (frustrate) di “Pale Communion”. V’è solo l’istinto di sopravvivenza, che spinge a ripararsi sotto la grande ala (ahem…) protettrice del classic rock, qualsiasi sia oggi il significato di questo abusatissimo termine. “Sorceress” non ha il fiuto danzante del predatore né il coraggio del pioniere. È un pavone, e da bravo pavone rimane fermo, immobile, compiaciuto, pronto a fare la ruota se adulato e a difendere strenuamente il proprio territorio quando attaccato. Le acustiche barocche di “Persephone” (sostituite, in “Persephone (Slight Return)”, da un fragile valzerino pianistico, lo stesso che si ode in apertura alla monolitica decalcomania Rush di “Era”) marcano l’appartenenza al folk misterico inglese degli anni ’60, con tanto di solenne spoken word di Pascale Marie Vickery: quando le spire mortifere delle tastiere della title track iniziano poi a srotolarsi, il richiamo congiunto ai complicati arzigogoli di “The Devil’s Orchard” e “Eternal Rains Will Come” è pressoché automatico. Contorsionismi buttati al vento: il brano si rivela essere un hard-goth di nessuno spessore, arricchito da pesanti parentesi strumentali che, più che alla narrazione, si rivelano funzionali al minutaggio e all’ego dei musicisti coinvolti.

In passato, il coinvolgimento emotivo del destinatario era essenziale per godere dei grandi classici. Aldilà della tecnica strumentale e delle innumerevoli, singole invenzioni che costellavano dischi come “My Arms, Your Hearse”, “Still Life” o “Blackwater Park”, le indiscutibili profondità toccate dal gruppo spingevano l’ascoltatore a reagire attivamente, con trasporto. Oggi – ed è forse questo il risvolto peggiore della nuova, regressiva fase degli Opeth – all’ascoltatore non viene richiesto nulla. Ognuno rimane al proprio posto: il musicista suona (molto bene, sempre meglio, va riconosciuto, ma è un’osservazione lapalissiana), l’appassionato osserva e applaude. Non ci si può aspettare molto di più da chi dichiara, candidamente, che suonare oggi “Demon Of The Fall” è nient’altro che un castigo… A proposito di corsi e ricorsi storici, se il termometro qualitativo di un disco di Åkerfeldt e compagni si misura, soprattutto, dalla fattura delle ballate in esso contenute, il giudizio su “Sorceress” non può che rimarcare, per l’ennesima volta, la distanza abissale che intercorre con il loro ingombrante lascito. Solo interessante la parentesi etno di “The Seventh Sojourn”, dove l’arrangiamento per archi e l’uso esteso di acustiche cajun e percussioni lignee (cajón, woodblocks) avvicina curiosamente gli Opeth agli Zeppelin post-Zoso da un lato, agli Orphaned Land dall’altro (non dimenticando, nel mezzo, la coda di vecchi classici come “Closure”): ma già “Will O The Wisp” è una torch song jethrotulliana (con estese propaggini solistiche blues-oriented, come in un “Damnation” svuotato di calore) senza particolari guizzi, mentre il minimalismo strutturale di “Sorceress 2” rivisita fuori tempo massimo “Coil”. La romanza di “A Fleeting Glance” lavora alacremente di contorno (intarsi acustici a braccetto con cembali vagamente kitsch), sfoderando echi di “Ghost Reveries” nelle sporadiche staffilate distorte.

Di formazioni che devolvono l’intera propria esistenza al revival rock il mondo è ricolmo. Alcune riescono splendidamente nel loro compito. Ma un conto è nascere con un determinato obiettivo, un altro aggiustarlo arbitrariamente in corso d’opera. Scrivendo “Morningrise”, gli Opeth sognavano forse di diventare quelli di “Sorceress”? Ascoltando l’interminabile sbrodolamento prog di “Chrysalis”, mi permetto di dubitarne.

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Voto degli utenti: 5,3/10 in media su 3 voti.
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