Julia Kent
Asperities
Lavete visto Youth di Sorrentino? Spazi immensi, vuoti irritanti, filosofie da eremitaggio take away e un generale, insopprimibile horror vacui. Nelle anse di questo artificioso non luogo si inserisce, languida e drammatica, la nuova narrazione solistica di Julia Kent. Non vi sono voci bianche, tramestii, sgocciolii: solo una stanza ridipinta di bianco, un violoncello, lascetica protagonista. Asperities si apre con le ferite arty stillanti drone di Hellebore: strati di corde si sovrappongono luno allaltro, si mescolano, si confondono, si dispongono in panneggi ad un tempo volumetrici ed impalpabili. Lac Des Arcs, poi, permette limpensabile: sovrapporre Rostropovič agli Stars Of The Lid. Di musica senso strictu azzerata la posa, ridotta ai minimi termini la sovrabbondanza concettuale ancora percentuali modeste, su spessori esangui. Quando, infine, del sopravanzare neoclassico di The Leopard, una funebre elegia dagli impalpabili overdubs elettronici, si riesce quasi a prevedere ogni singola nota non che limpresa sia titanica: ve ne sono molto poche, a conti fatti , una smorfia di disappunto non può che farsi strada sul volto, a soppiantare quella di estasi indotta: ed è subito dejà vu tardo-sorrentiniano.
Il problema di Asperities, una pecca a monte che si potrebbe quasi definire ontologica, è lassoluta, eccessiva omogeneità nei suoni e nellinterpretazione dei brani. Pur terribilmente ammaliato dalle profondità ambientali, il violoncello di Julia Kent si era distinto, nel recente passato, per una buona duttilità dimpiego nel fraseggio, nel contrappunto, come agente di disturbo. Ora, invece, è tutto sogno. Tutta palpitazione. Tutta contemplazione assorta e lancinante, intensa, morbosa: in definitiva, sterile. In Terrain, di gran lunga lepisodio migliore dellalbum, gli ampi sospiri strumentali di Julia cozzano contro un muro di grigiastre scorie industrial e di gelidi pad sintetici: segno che i numeri, volendo, ci sono, ma sono stati volutamente sacrificati ad altro. Questo altro che, preso a piccole dosi, inframmezzato da sbalzi di tono, da episodi di colore e consistenza eterogenea, si rivela tanto brillante quanto intenso , impiegato come esclusivo collante di tutto il disco, si trasforma in un ostacolo insormontabile. La tendenza generale, dopo molti ascolti, è quella di preferire, in ogni caso, i brani dalla durata più contenuta (tra il romanticismo di Tramontana, con gli archetti che sfregano ad imitazione di uccelli marini, e la stratificata Invitation To The Voyage, una ripresa delle migliori idee della Transportation contenuta nel precedente Character, 2013, non abbiamo dubbi dalla parte di cosa schierarci). Spesso, tuttavia, non basta: così come lintuizione, potenzialmente vincente, di nascondere un gattonante madrigale tra le aperture di Flag Of No Country, suona ugualmente isolata.
Se non vuole essere etichettata a vita come un Teho Teardo in gonnella, Julia Kent deve approfittare delle debolezze di Asperities per rilanciare, con più forza ancora, un percorso artistico comunque suggestivo e rilevante. Sulla riuscita finale del compito, scaramanzia a parte, non nutriamo dubbio alcuno.
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