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R Recensione

5,5/10

Julia Kent

Asperities

L’avete visto Youth di Sorrentino? Spazi immensi, vuoti irritanti, filosofie da eremitaggio take away e un generale, insopprimibile horror vacui. Nelle anse di questo artificioso non luogo si inserisce, languida e drammatica, la nuova narrazione solistica di Julia Kent. Non vi sono voci bianche, tramestii, sgocciolii: solo una stanza ridipinta di bianco, un violoncello, l’ascetica protagonista. “Asperities” si apre con le ferite arty stillanti drone di “Hellebore”: strati di corde si sovrappongono l’uno all’altro, si mescolano, si confondono, si dispongono in panneggi ad un tempo volumetrici ed impalpabili. “Lac Des Arcs”, poi, permette l’impensabile: sovrapporre Rostropovič agli Stars Of The Lid. Di musica senso strictu – azzerata la posa, ridotta ai minimi termini la sovrabbondanza concettuale – ancora percentuali modeste, su spessori esangui. Quando, infine, del sopravanzare neoclassico di “The Leopard”, una funebre elegia dagli impalpabili overdubs elettronici, si riesce quasi a prevedere ogni singola nota – non che l’impresa sia titanica: ve ne sono molto poche, a conti fatti –, una smorfia di disappunto non può che farsi strada sul volto, a soppiantare quella di estasi indotta: ed è subito dejà vu tardo-sorrentiniano.

Il problema di “Asperities”, una pecca a monte che si potrebbe quasi definire ontologica, è l’assoluta, eccessiva omogeneità nei suoni e nell’interpretazione dei brani. Pur terribilmente ammaliato dalle profondità ambientali, il violoncello di Julia Kent si era distinto, nel recente passato, per una buona duttilità d’impiego – nel fraseggio, nel contrappunto, come agente di disturbo. Ora, invece, è tutto sogno. Tutta palpitazione. Tutta contemplazione assorta e lancinante, intensa, morbosa: in definitiva, sterile. In “Terrain”, di gran lunga l’episodio migliore dell’album, gli ampi sospiri strumentali di Julia cozzano contro un muro di grigiastre scorie industrial e di gelidi pad sintetici: segno che i numeri, volendo, ci sono, ma sono stati volutamente sacrificati ad altro. Questo “altro” – che, preso a piccole dosi, inframmezzato da sbalzi di tono, da episodi di colore e consistenza eterogenea, si rivela tanto brillante quanto intenso –, impiegato come esclusivo collante di tutto il disco, si trasforma in un ostacolo insormontabile. La tendenza generale, dopo molti ascolti, è quella di preferire, in ogni caso, i brani dalla durata più contenuta (tra il romanticismo di “Tramontana”, con gli archetti che sfregano ad imitazione di uccelli marini, e la stratificata “Invitation To The Voyage”, una ripresa delle migliori idee della “Transportation” contenuta nel precedente “Character”, 2013, non abbiamo dubbi dalla parte di cosa schierarci). Spesso, tuttavia, non basta: così come l’intuizione, potenzialmente vincente, di nascondere un gattonante madrigale tra le aperture di “Flag Of No Country”, suona ugualmente isolata.

Se non vuole essere etichettata a vita come un Teho Teardo in gonnella, Julia Kent deve approfittare delle debolezze di “Asperities” per rilanciare, con più forza ancora, un percorso artistico comunque suggestivo e rilevante. Sulla riuscita finale del compito, scaramanzia a parte, non nutriamo dubbio alcuno.

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