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R Recensione

7/10

Julia Kent

Temporal

Si viene attraversati da un pensiero, per quanto naïf, nel vedere la figura austera e longilinea di Julia Kent china sul proprio violoncello, i capelli a spiovere sul volto, l’archetto in una mano, i piedi nudi a manovrare le pedaliere: che la strumentista canadese non scriva musica, ma sia attraversata da essa – o, in termini appena più eleganti, che sia solo l’elegante tramite corporeo di un costante flusso immateriale che trascende il tempo e lo spazio. Idea tutt’altro che balzana e, anzi, suggerita precisamente dall’andamento spiraliforme della lunga “Last Hour Story”, suite che inaugura nel migliore dei modi il nuovo “Temporal”: un bordone ambientale contrappuntato da bleep elettronici, polifoniche aperture neoclassiche e tridimensionali ripiegamenti drammatici, in un crescendo finto-orchestrale che – nel rigore della costruzione – regala baleni di autentica emozione cinematica.

Per il quinto full length a suo nome, a quattro anni dal precedente (e deludente) “Asperities” e a stretto giro di posta dalla collaborazione con Jean D. L. per “The Great Lake Swallows”, Julia Kent muove recisamente in direzione di un modello performativo integrato, una sonorizzazione in cerca d’opera: non stupisce apprendere che la scaletta di “Temporal” sia composta da una serie di brani precedentemente composti e impiegati per spettacoli coreutici e solo in un secondo momento assemblati, per affinità umorali, in un unico disco. Influenze, queste, anche piuttosto evidenti in alcuni frangenti (il leggero valzer di “Floating City”, frastagliato dai pad e bagnato da radi fraseggi pianistici: la struggente milonga di “Sheared”; l’ammaliante allure favolistico della malinconica “Through The Window”) ma, fortunatamente, mai tendente a quella sterile uniformità che aveva caratterizzato molta della recente produzione della violoncellista. Al contrario: se c’è un pregio particolare per cui “Temporal” si distingue è proprio l’eterogeneità, la fedeltà strutturale ad un concept che in nessun modo annulla le differenze contenutistiche fra singoli brani. Esemplare, a tal riguardo, la sequenza “Imbalance” – “Conditional Futures”, quasi antitetiche per costruzione ed esecuzione eppure, in un qualche modo, legate indissolubilmente fra loro: imponente il montare dell’onda sonora nella prima, con uno stratificato volteggiare di archi e organetto, minimalista e a tratti carpenteriana la seconda, trasfigurata dal processing digitale (un minimalismo impalpabile, e a tratti inquietante, che avvolge anche il congedo, una “Crepuscolo” dilatata e sospesa nel vuoto).

Nelle originarie intenzioni dell’artista, “Temporal”, come da titolo, dovrebbe proporsi come meditazione sull’inafferrabile scorrere del tempo e sulla fragilità dell’esistenza umana. Stasi e movimento. Nascita e dissoluzione – come nella bella copertina di Tan Ngiap Heng. Misteri concettuali non nuovi, ma qui incarnati con particolare nitore. Una buona occasione d’ascolto.

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