R Recensione

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Philip Glass

Glassworks

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Glassworks – Introduzione

Quando Philip Glass si avvicinò al piano, ero sdraiato con l’animo sonnacchioso e sospirante lungo le scale stondate dell’ala sinistra di piazza maggiore, riparato dalle intemperie del caldo afoso grazie ai portici di Palazzo del Podestà. La notte aveva consumato il suo pasto di luce con avidità e non rimaneva che il buio tutt’intorno. Calore, notte, pensieri infausti erano i gravi che sostenevo. Glass suonava l’ultimo pezzo: in ritardo evidente, mi era stato concesso almeno l’ultimo afflato del maestro. Quando Glass attaccò “Opening”, la pigrizia dettata dal calore tremendo si sciolse improvvisamente. I gravi si schiantarono a terra, sentì una brezza leggera rinfrescarmi il capo, Piazza Maggiore si rivesti di blue. I sanpietrini erano blue, San Petronio era blue, i portici erano blue, il cielo era blue, il campanile di palazzo D’Accursio era blue, gli uomini erano blue. La pavimentazione centrale della piazza era ricoperta di uno strato di ghiaccio fine, luccicante e gli spettatori vi pattinavano sopra. Allora capì che non mi interessava altro in quel momento, che avrebbe potuto scatenarsi l’inferno, le acque avrebbero potuto aprirsi e il cielo collassare ma io sarei rimasto lì, sostenuto dalla leggerezza di quelle terzine e duine incantevoli, lasciandomi trasportare da sentori magici, inebriato da profumi sconosciuti tinti di blue. “Blue Glass”. Fu il mio incontro decisivo con Philip Glass.

Sarebbe riduttivo definire Philip Glass un minimalista, se non altro perché lo sarebbe per artisti come Riley, Pollock, Rothko, Beckett o Hemingway. Ogni qualvolta un artista richiamava figure semplici, rappresentazioni scarne e nel contempo elaborava concetti nuovi, mai esplorati era certamente più facile gettarlo nel calderone del minimalismo piuttosto che inventare nuove correnti per descriverlo.

Quella di Glass è musica cellulare, è un sistema complesso formato da un numero finito di unità che interagiscono tra loro. È come un reticolo di strutture che cambiano forma dopo un certo periodo di tempo, generando, nella loro dinamica temporale, un fenomeno, un manifestarsi. In “Glassworks” ciò che si manifesta sono emozioni, sentimenti che si sviluppano nella durata dei pezzi, acquisendo consistenza, dimensionalità.

Le composizioni di “Glassworks”, sono delle stratificazioni di cellule, appoggiate le une sulle altre, che si compaiono, si diffondono e si dissolvono a turno lungo tutta l'opera, come un cielo velato di nuvole colorate: esse arrivano, sostano, si muovono e ripartono da dove erano venute. In questo senso, “Glassworks” è un concept album perché è un continuum che fluisce senza interruzioni, con una struttura simmetrica ben evidente: è come un fiume, composto di cascate, stagnazioni, corsi regolari.

Glassworks” è l’atterraggio di Philip Glass sul pianeta terra, dopo le esperienze compositive più ardite compiute nel Parnaso della musica. In qualche modo, Glass decide di scendere in mezzo al popolo e di donare loro, l’esperienza inaudita di un ascolto intenso, profondo, estasiato, spogliando la composizione della complessità strutturale delle opere precedenti e vestendola di una maggiore umanità. “Glassworks”è una perfetta ricostruzione “in vitro” di stati d’animo umani attraverso la musica. Se la difficoltà più grande che impone la musica classica contemporanea è proprio quella di allontanarsi dai canoni standard del sentimento per poter essere completamente indipendente dal “sentire umano” e raggiungere livelli di creazione originali, che possano sondare mondi ulteriori e diversificati, ecco che Glass riprende in mano quella destrutturazione, quelle sperimentazioni avulse dal mondo umano e le ricompone in un affresco efficacissimo, che esplora il sentimento in maniera originale e nuova. Glass inventa la vera e unica “avanguardia pop”, che influenzerà le decadi successive in maniera irreversibile: basti pensare ai Tortoise, agli Aphex Twin, ai Massive Attack, ai Radiohead, ai Portishead, ai Mercury Rev, a Ludovico Einaudi e la lista potrebbe continuare infinitamente.

La musica di Philip Glass non è rappresentativa bensì creativa, non è immagine bensì astrazione. Ciò rende possibile un’interazione maggiore con l’ascoltatore: egli diventa parte attiva dell’opera, l’ascolto diventa parte integrante della produzione musicale attraverso l’interpretazione personale del pezzo. Glass ci dona solamente l’input, il mood iniziale, le fondamenta di una costruzione soggettiva. Ecco che tocca a noi far viaggiare la mente attraverso mondi lontani, paradisi e inferni sconosciuti. Le opere più grandi sono proprio quelle che non si chiudono su sé stesse, ma lasciano il margine per l’ interpretazione-chiave di ognuno di noi. Il classico rimane in eterno proprio perché ogni lettore, ascoltatore, osservatore può aggiungere qualcosa di rilevante, una sfumatura che amplia le tematiche lanciate dall’autore.

Ciò che segue è quindi frutto di una impostazione totalmente intimista: il mio Glass che non è il tuo Glass o il suo Glass. Il mio Glass né giusto, né sbagliato, né conclusivo, né inutile. Il mio personale Glass.

Glassworks – Automi cellulari musicali

Stephen Wolfram, enfant-prodige e fisico di fama mondiale molto discusso per il suo approccio “metafisico” alla scienza, è il rappresentante più agguerrito, grazie alla sua opera colossale “a New Kind of Science”, della teoria degli automi cellulari. Un automa cellulare è costituito da una collezione di celle identiche che interagiscono l’una con l’altra. Gli elementi descrittivi del comportamento di un automa cellulare sono lo stato in cui essa si trova ad ogni istante, l’insieme delle celle vicine ad essa, la dinamica che ne descrive l’evoluzione di stato. Secondo Wolfram, le dinamiche di piccole semplici cellule possono descrivere una quantità inimmaginabile di fenomeni, dai processi economici ai mutamenti biologici.

Immaginiamo Glassworks come un “veliero in bottiglia”. Invece del veliero, inseriamo delle strutture musicali semplici all’interno della bottiglia e vediamo come si dispongono, qual’è la dinamica con cui si muovono, in particolare quali sono il sentimento e il colore che sviluppano lungo la durata del pezzo.

L'edificazione si basa su tre momenti: i theme (Opening e Closing), le attese (Island e Facades), le rotazioni (Floe e Rubric). Glassworks è quindi in forma T-A-R-A-R-T. I theme sono di colore blu ed ispirano quiete e magia, le attese sono invisibili o in bianco e nero e sono momenti di stallo, le rotazioni sono multicolorate e rappresentano libertà, creatività, volo.

I. Opening (Theme: quiete solitaria e imponenza)

Inseriamo terzine e duine di piano di colore blu: stasi profonda e solitaria. Il blu si diffonde lentamente, in silenzio, dominando lo spazio, avvolgendo ogni cosa. La profondità si moltiplica, creando un ampia zona emozionale, lo spettro del blu si spande e accoglie differenti sfumature, dal blu candido glaciale della placida solitudine al blu denso corposo della ebbra maestosità. Quindi un oceano blu che si distende dinamico, dalle mille tonalità, tanto che è impossibile poterne vedere la fine.

 

II. Floe (Rotazione vincolata: la scoperta della creatività)

Inseriamo una lunga nota di ottone nero, saliscendi di fiati rossi e sintetizzatori blu. La spruzzata d'inchiostro del corno presto si dissolve per mostrare pois di rosso e di giallo che cominciano a ruotare, sempre più veloci, quindi vorticosamente, facendo a gara tra loro, generando sprazzi di viola dalla loro fusione. Parvenza di libertà raggiunta attraverso un volo scatenato e senza termine eppure vincolato a terra da un moto circolare, non c'è fuga. Un movimento dinamico ma statico allo stesso tempo, un eterno ritorno con un periodo brevissimo. Stop. Una ulteriore fumata di nero corno interrompe il flusso orgasmico. Solo pochi secondi. Poi la ripartenza violenta, ancora una volta gettandosi vertiginosamente alla caccia della massima velocità.

III. Island (Attesa: con sollievo)

Un tessuto armonico di archi ed una melodia di fiati che torna su sé stessa, invisibili di primo acchitto. Man mano che il tempo passa, cominciamo a notare un velo opaco che si diffonde lungo lo spazio. Quindi la cortina inizia a farsi più densa, limitando la visione. Con cambi lievi, il fumo invisibile, diventa grigio chiaro, quindi maggiormente oscuro, infine sfumando verso tonalità plumbee, uggiose. C'è attesa nell'aria, non vediamo più nulla, dobbiamo solo aspettare che questa nebbia improvvisa transiti davanti a noi per poi scomparire.

IV. Rubric (Rotazione svincolata: la dirompenza della creatività)

Inseriamo lunghi strati di ottoni neri, saliscendi di fiati rossi, di organi elettrici blu, di campanelli gialli. Qui il volo diventa straripante perché senza direzione alcuna, totalmente in balìa degli eventi: i fiati rossi iniziano una rotazione aggressiva, si legano come per magia alchemica ai campanelli gialli, formando un lucente arancione. Poi improvvisamente si fermano, invertono il senso di marcia e ripartono con urgenza ancora maggiore dal verso opposto, quindi si dissolvono, lasciando il posto agli organi blu che si intrecciano mirabilmente a formare un verde profondissimo. Strati di ottoni neri si addensano per un attimo, volando via l'istante dopo. Ora sono fiati e organo a legarsi, a darsi una caccia serrata, rincorrendosi nello spazio liberato dagli strati di ottoni: formano un tenue viola. Rubric è la miriade di colori che pervade l'arte, il flusso incontrastato dell'energia creativa.

V. Facades (Attesa: più minacciosa)

Tessuti armonici di archi più decisi e densi. Questa volta l'atmosfera è più ansiosa e più nera. La nebbia si fa subito minacciosa, eppure non scaturisce nulla, solo attesa. Il bianco e nero si diffonde con pacatezza, senza attaccare. In punta di piedi, entrano sul palco, note seriose di ottoni luminosi, danzando lievemente. Si prosegue su questo tono, l'istante prima dell'attacco che non avverrà mai, un vagheggio oscuro contrappuntato da flash rapidi e brillanti.

 

VI. Closing (Theme: quiete e solenne magia)

L' estrema sintesi di un capolavoro: terzine e duine di piano blu sono lo strato superiore, ma in questo caso l'arrangiamento si arricchisce di tutte le stratificazioni precedenti, come in una celebrazione finale, a cui tutti partecipano: compaiono quindi a turno, i tessuti di archi neri, i fiati rossi, gli ottoni luminosi, i contrappunti gialli. La solitudine del piano solo lascia il posto ad un coro armonioso, una polifonia (non nell'accezione data dalla teoria musicale) brillante. Una rèprise con valore aggiunto quindi, che, scartando la patina maestosa del piano solo, immette una sfumatura spirituale, eterea. Una suprema festa di colori, in cui ovviamente domina il “Blue Glass”.

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Voto degli utenti: 9,1/10 in media su 8 voti.
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rael 10/10
F-000 9/10
REBBY 7,5/10
rubiset 10/10

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rael (ha votato 10 questo disco) alle 12:06 del 9 aprile 2010 ha scritto:

bello ma pesantuccio_'