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R Recensione

7/10

Shannon Wright

Providence

Una questione di fiducia e fedeltà: arrivereste mai a spiare i taccuini che contengono i segreti reconditi della persona a voi più cara, magari con il rischio di scoprire delle cose che sarebbe stato meglio per tutti fossero rimaste nell’ombra? Sperabilmente no. Eppure, ascoltare oggi “Providence”, dodicesimo disco in studio di Shannon Wright, inocula in chi assiste la stessa sensazione di impaccio e malessere: è come osservare squadernata l’anima della cantautrice di Atlanta, avvicinarsi alle sue pagine, sfogliarle avidamente, sbirciarne i dettagli per poi impossessarsene – un ratto di coercitiva e destabilizzante violenza. È, paradossalmente, la stessa impostazione stilistica del “nuovo” corso di Shannon a richiedere al proprio interlocutore quest’approccio predatorio: la sua è una poetica dolente e minimale, che si offre per quello che è, nuda ed indifesa (e, in quanto tale, temibile e perigliosa).

La sensazione generale è che “Providence” sia figlio del precedente “Division” (2017), prima ancora che nella ricerca di sottrazione e decostruzione sonora (e nella preziosa produzione di David Chalmin), nella composizione di tasselli extra- e metamusicali che ne giustificano l’esistenza: una quotidianità difficile, una rinnovata esigenza di sincerità verso il proprio pubblico, la necessità di fare i conti con sé stessi e con i propri demoni. Espulsi dal proprio corpo – probabilmente per sempre – gli ultimi ed abrasivi rigurgiti elettrici del sottovalutato “In Film Sound” (2013), la Shannon Wright di “Providence” suona come un esatto negativo del capolavoro “Let In The Light” (2007): la drammatica decadenza mitteleuropea di questo che, dodici anni più tardi, collassa nello scheletro di scavate ballate neogotiche piene di ombre, di anfratti, di inquietudini (paragone particolarmente calzante per il valzer listato a lutto dell’iniziale “Fragments”). Se si escludono impercettibili contrappunti tastieristici sovraincisi qui e lì e un drone di archi che accentua la drammaticità degli stacchi di “Somedays”, brano centrale e più breve della raccolta, rimangono sul tavolo solamente voce e piano: un’essenzialità che non rinuncia affatto allo studio di armonie talvolta persino complesse (le tornite evoluzioni neoclassiche che si diramano dalla frase pianistica portante rendono la title track uno dei brani migliori di sempre del repertorio wrightiano) e che a tratti costeggia persino il virtuosismo (i continui cambi di passo della spettrale “Wish You Well”, con inserzione di sezioni di tarantolato cabaret), ma che dà ancora il meglio di sé nelle fluviali confessioni autobiografiche che riscrivono Nick Cave e Lisa Germano in un linguaggio di sofferente austerità accademica (l’onirico singolo “These Present Arms”) o su cui soffiano venti di gelida solitudine (emblematico il loop in reverse in cui cade l’obliqua “Disguises”).

Disco tetro, livido, polarizzante. Shannon Wright che parla a sé stessa in uno specchio vuoto. Atterrirà i più, ma è un timore catartico. Rimane una domanda: c’è vita oltre “Providence”?

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