American Music Club
The Golden Age
Mark Eitzel e i suoi American Music Club regalano al loro selezionato gruppo di fan il classico gradito ritorno. La reunion nel 2004, dopo un periodo da solista di Eitzel, aveva dato alla luce lo splendido Songs for Patriots, amarissimo e furente ritratto di una contemporaneità paralizzata dalle sue paure e soffocata dalla retoriche populiste che quelle paure vorrebbero esorcizzare.
A tre anni di distanza segue A Golden Age, ennesima prova di stile della band di San Francisco, che sembra quasi voler riportare i toni lirici e musicali su terreni, se non più distesi, quantomeno più meditati e introspettivi. Da un punto di vista musicale si tratta di un vero e proprio ritorno alle origini, con una collezione di rock ballads di gran classe che fanno sembrare distanti anni luce le contaminazioni tra country-rock ed elettronica dell’Eitzel solista, ma sembrano anche mettersi alle spalle la rabbia a stento contenuta di Songs for Patriots. Rimane invece intatta l’altissima vena lirica, sempre pericolosamente in bilico tra poesia e melodramma, straordinariamente efficace nel descrivere l’alienazione e l’inadeguatezza dei personaggi di queste storie nei vari ruoli di uomini/artisti/amanti, che di volta in volta (e spesso simultaneamente) si trovano a dover impersonare .
La partenza soft di My love, delicata love-song che parrebbe pure banale e scontata se a suonarla non fossero gli American Musical Club, fa da apripista al momento migliore dell’album: la toccante The Decibels and the Little Pills, mosaico di fulminanti versi tipo “holding hands with brand new friends / names are only good for gravestones” e che si chiude con un raro assolo di chitarra, quasi di scuola Wilco, di quelli che scivolano via talmente bene che alla fine sembrano sempre durati troppo poco. Sleeping Beauty, ballata dolceamara immersa nelle atmosfere oniriche di una qualunque cittadina di provincia, è un altro dei momenti più ispirati e apprezzabili dell’album.
Ritmiche piu pop spuntano in All the Lost Souls Welcome to San Francisco, canzone tributo all’amata/odiata San Francisco, che fa il paio con The Gran Duchess of San Francisco posta in chiusura dell’album. Who you are costituisce invece una palese concessione alle forme più canoniche e collaudate del rock melodico ed è il segno più evidente che qualcosa sta cambiando; forse per la prima volta nella loro carriera gli AMC suonano come qualcosa già sentito (Paul Weller?) e non irrimediabilmente come se stessi.
A Golden Age non è molto più che un bell’episodio addizionale nella storia degli AMC, ma costituisce indubbiamente una terapia necessaria per riaffermare la voglia di fare musica alla propria maniera, sublimando finalmente tutti i propri cliché, mantenendo immutate qualità e ispirazione.
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