R Recensione

8/10

Eagles

Long Road Out Of Eden

Più volte annunciato e rimandato, il ritorno degli Eagles in grande stile si concretizza a ben ventotto anni dal loro ultimo album di studio (“The Long Run”, 1979) tralasciando cioè i Live e le raccolte con qualche brano inedito apparse nel passato più recente. Per chi li conoscesse molto superficialmente (possibile…condividono con Beatles Led Zeppelin Pink Floyd e Michael Jackson i primi cinque posti delle vendite mondiali ogni tempo di dischi, ciononostante qui in Italia c’è sempre stata un bel po’ di puzza al naso nei loro riguardi), trattasi di un quartetto nel quale tutti cantano e compongono.

Ciò che primariamente ha permesso al gruppo di elevarsi ben sopra la media è la speciale interazione fra il chitarrista/pianista Glenn Frey ed il batterista Don Henley, una di quelle collaborazioni musicali in grado di moltiplicare la somma dei rispettivi talenti, alla Lennon-McCartney per intenderci. Henley lo si può accostare a Lennon: inquieto, mai contento, socialmente impegnato e quindi spesso corrosivo e polemico nei testi, inoltre (diversamente dal povero John in questo) patologicamente pignolo ed esigente, cesellatore di melodie e testi alla ricerca della perfezione fino allo sfinimento. Frey è il suo opposto (alla McCartney appunto): estroverso, sicuro di sé ai limiti della strafottenza, più superficiale ma pieno di energia rapida e positiva, in grado quindi di alleggerire e solarizzare il tormentato modus di Henley che può ricambiare fornendo profondità e meticolosità a quello di Frey. La sinergia fra i due ha generato l’incredibile forza propositiva e competitiva alla base dell’immenso successo del gruppo nonché del suo lunghissimo periodo di sbandamento, quando non riuscivano a sopportarsi.

Affiancano i due leader il bassista Tim Schmit, dotato di fantastica voce sopranile ed il grande chitarrista Joe Walsh, ogni tanto al proscenio con loro composizioni e per quanto riguarda Walsh, con robusti interventi strumentali in grado di elevare di parecchio l’intensità e la liricità dei pezzi. L’eccellenza assoluta viene sistematicamente raggiunta nei cori. Il blend delle voci di Frey, Henley e Schmit (Walsh ha compiti vocali più defilati, interpretando comunque le proprie canzoni) è di un amalgama e precisione ammalianti, qualcosa di inimitabile nel panorama rock. Sono voci assai diverse fra di loro, eppure la cura e l’esercizio con le quali vengono arrangiate e armonizzate costituisce un irresistibile “gancio” per molte loro composizioni e la loro alternanza nel ruolo solista aggiunge varietà e mobilità ai loro dischi. “Long Road Out Of Eden” comprende ben venti nuove canzoni per novantuno minuti complessivi, suddivise in due cd con diversa tendenza, il primo raccoglie il lato più tradizionale e compatto del gruppo (molte ballate country rock, molti cori, decisamente in odore di “anni ‘70”), il secondo quello più diversificato, orientato da brano a brano verso le peculiari tendenze e personalità del musicista alternativamente al centro dell’attenzione.

Percorrendo quindi gli undici brani raccolti nel primo dischetto, la sensazione è che i ventotto anni dall’uscita del precedente “The Long Run” siano volati, il country rock rilassato e dolciastro la fa da padrone, a cominciare dal prologo con le quattro voci a cappella costituito da “No More Walks In The Wood”, a cui segue con indovinato contrasto il purissimo country rock (con l’accento sul rock) di “How Long”, scelto come primo singolo di promozione all’album. È una cover, essendo l’autore un amico di sempre il cantautore John David Souther che già su altri dischi aveva dato una mano al gruppo. Le strofe sono cantate alternativamente da Frey ed Henley e il competentissimo e brillante lavoro solista è del giovane e valido Steuart Smith, da tempo loro chitarrista aggiuntivo nei concerti, dotato di tecnica e tocco perfetti ma un poco didascalici, tutto il contrario del grande Joe Walsh, solista più semplice e lineare ma pieno di anima e fuoco. I quattro brani successivi presentano ognuno dei cantanti: tre sono ballate e sanno molto di già sentito, benché ciascuno dei tre autori le interpreti splendidamente, specialmente il bassista il cui vibrato perfetto rende celestiali certi passaggi della sua “I Don’t Want To Hear Anymore”.

Continua ad imperversare la chitarrina ben pettinata di Smith e per ascoltare per la prima volta il chitarrone di Joe Walsh bisogna attendere, fra queste quattro, il suo momento costituito dalla cover di “Guilty Of The Crime”, bella fumante con organo Hammond e chitarra slide a mordere e grattare quanto basta. Finalmente, al settimo pezzo, arriva un ottimo motivo per cui acquistare il disco: “Waiting In The Weeds” è di nuovo un pezzo lento dovuto alla penna di Henley, con uno stratosferico intermezzo centrale nel quale è grandiosa l’atmosfera creata da fisarmonica e mandolino che introducono alcune frasi cantate da Don ai limiti inferiori della sua estensione ed in modo davvero sublime. Frey si “vendica” subito piazzando a seguire la sua ottima ballata “No More Cloudy Days”: la sua interpretazione sapiente scorre sopra un classico accompagnamento percussivo con le spazzole. È comunque un pezzo già conosciuto essendo parte, con identico arrangiamento, di un concerto australiano degli Eagles immortalato su un DVD uscito nel 2005. Sorprendente invece l’escursione in territori marcatamente funky che si realizza con “Fast Company”: una base scarna mezza funk e mezza rock sulla quale Don Henley si esibisce in falsetto, dalla prima all’ultima nota, alla maniera di Prince. Commerciabilissima, potrebbe diventare un grosso tormentone nei prossimi mesi, aggredendo mercati anche assai lontani dagli Eagles.

A chiusura del primo dischetto altre due ballate (e dai…) interpretate rispettivamente da Schmit e Frey, quest’ultimo veramente perfetto per provocare grossi turbamenti alla massaia media americana, magari divorziata ed in carenza affettiva… Finisse qui “Long Road Out Of Eden”, ci sarebbe di che essere delusi: troppe ballate, troppa musica californiana mainstream, solo tre brani notevoli su undici, ma per fortuna c’è il secondo dischetto…

Che si apre con il masterpiece del lavoro, quello che da ad esso il titolo: dieci minuti abbondanti di ispirata e poetica tiritera (di Henley) contro le invasioni americane degli stati petroliferi, la propaganda distorta e le false ragioni addotte, l’assurdità ed inutilità del tutto. Dopo un prologo “atmosferico” di sassofono baritono il batterista comincia a declamare il suo lamento accompagnato da un’acustica ed un piano elettrico trattato con il vibrato, arrangiati e missati con paurosa classe. Arrivano le chitarre elettriche ed il climax esplode nel tonitruante assolo di Joe Walsh, tra i migliori mai sentiti, così lirico e drammatico da far venire i brividi. Che grande chitarrista! Pochi altri al mondo sono capaci di queste pagine così strazianti, mi vengono in mente Gary Moore, Jimmy Page, veramente nessun altro. La canzone si ricompone per un ulteriore strofa e va a sfumare in una coda strumentale dal titolo esplicativo “I Dreamed There Was No War”, opera di Frey, a cui segue la robusta Somebody da lui stesso interpretata. Non c’è più traccia di country rock e di indolente California, la canzone è tesa e potente col suo veloce pedale di basso, le chitarre acustiche a tutto braccio a pompare il titmo, gli interventi di slide del redivivo Walsh, la voce di Glenn accorata e pulsante. A contrasto parte poi un groove asciutto e corrosivo a là Steely Dan sul quale un amarissimo Henley srotola invettive contro l’America tutta e le sue insopportabili contraddizioni. Si intitola “Frail Grasp On The Big Picture” ed è proprio musica urbana, claustrofobia altro che country…vi è pure un breve accenno di loop ritmico nell’inserto centrale, fra chitarre elettriche che scorrazzano acide, puntute, iperritmiche.

Il variegato programma di questo secondo dischetto prevede poi un nuovo sipario per Joe Walsh, una composizione che ricalca il suo classico stile tanto da odorare assai di album solo e assai poco di Eagles: su un tappeto percussivo ossessivo ma trascinante il buon Joe scorrazza da par suo con voce e Stratocaster, in gara a chi è più sornione. Di nuovo qualcosa di già sentito ma musica efficace, trascinante, con la capacità di essere lirico che è la prima qualità di questo attempato ubriacone del rock. Frey invece non ci sta a mollare le massaie americane per più di una canzone, neanche nel contesto assai più acido e variegato rappresentato da questa seconda parte di “Long Road Out Of Eden” e riprende la vena romantica e dolciastra dominante sul primo dischetto con un valzer che è tutto un programma sin dal titolo: “I Like To Watch A Woman Dance”. Una cascata di zucchero, senza pudore. Se ci si è innamorati, o disamorati, è perfetta.

Ma il disco si impenna di nuovo subito dopo: una chitarra con rimembranze U2 su una ritmica piena di tensione introducono il solito Henley che riprende a scagliarsi contro la sua società, stavolta contro il “Business As Usual” che “fa diventare il cuore di legno”: ancora bella ispirazione e sana polemica (da parte di un tizio che è stramiliardario, certo, ma meglio di niente). Chitarre battenti e solo qualche “uuh” dei compagni a ricordare che si sta ascoltando un disco dei The Eagles from Los Angeles, California. Sempre Henley, come sempre l’uomo più attivo ed in vista del quartetto, intona poi la notevole “Center Of The Universe”, smettendo le invettive e tornando a parlare d’amore su una base di deliziosi arpeggi acustici ed una lussureggiante armonizzazione delle altre voci. Di classe anche l’assolo di chitarra…classica, nelle mani del fido Smith decisamente latitante in questa seconda parte, ingoiato dal vecchio Joe e dalla sua potenza. La chiusura è in mano a Frey ed alla sua “A Perfect Day”, anch’essa parecchio fuori del contesto classico del gruppo essendo un esercizio messicaneggiante, con fisarmonica e trombe a contrappuntare l’interpretazione confidenziale del nostro. Pur essendo doppio, il cd è venduto al prezzo di un singolo. Vale la pena ancor di più, quindi.

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C Commenti

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DonJunio alle 17:06 del 14 novembre 2007 ha scritto:

we haven't had that spirit here since 1969....

Penso che gli Eagles siano stati un po' trattati con la puzza sotto il naso perché sono stati coloro i quali hanno reso moneta sonante il fenomeno country-rock e la scena westcoastiana. Anche in AMerica nonostante le vendite milionarie la critica non li ha sempre considerati un gradino sotto altri artisti coevi, e io sono d'accordo. Non sapevo di questo album, ottima recensione come sempre!