Grant Lee Phillips
Little Moon
Grant Lee Phillips è in giro da più di 20 anni, e può vantare un curriculum di tutto rispetto. Prima i bagliori carbonari degli Shiva Burlesque, l’ala più classicamente psichedelica della scena trance di Los Angeles a fine anni 80. Quindi l’esperienza dei Grant Lee Buffalo, tra le più significative dell’alt-country della decade successiva, grazie in particolare a due dischi. Il funambolico “Fuzzy”, fulmine a ciel sereno nel suo suonare come il Neil Young di “Harvest” compresso in una camicia di flanella ornata con le piume di Ziggy Stardust. E il monumentale “Mighty Joe Moon”, in pratica il secondo album di The Band riletto attraverso il prisma gotico dei Joy Division.
Opere troppo intelligenti e introspettive in un’epoca in cui erano proposte ben più rumorose e astute a trovare oceanici consensi, tra il grunge ormai biodegradato e il roots-rock radiofonico di Counting Crows, Live e compagnia cantante. Poi, l’inesorabile declino con un’ opera interlocutoria che cercò invano di risalire la corrente, troppo devota agli amici Stipe e Buck senza averne la cinica incisività (“Copperopolis”), e un viaggio senza ritorno in un pallido feeling americana (“Jubilee”).
Quindi l’avvio di una carriera solista improntata a un rock mainstream e orientata a ricalcare le orme di un altro, geniale perdente di lusso: Paul Westerberg. Proprio come il leader dei Replacements, Grant ha soltanto raramente dato prova del suo talento e della passata gloria una volta messosi in proprio. “Little Moon”, l’ultimo parto dell’autore di “America snoring”, riapre un discorso in cui i fili col passato vengono riannodati con un songwriting finalmente all’altezza dall’inizio alla fine e arrangiamenti calibrati al punto giusto.
“Good morning happiness” apre le ostilità con una fanfara gioiosa condita da un assolo ronsoniano, apripista perfetto per il sentiero in cui si muoveranno il guizzante vaudeville di “The sun shines down on Jupiter” e la jazzata “It ain’t the same old cold war”. In certi frangenti sembra di scorgere un Bruce Springsteen tornato sulla sponda del fiume con la E Street Band, disincantato ma non domo: si ascoltino l’impeto torrenziale di “Strangest Thing” e “Seal it with a kiss” o l’accorato piglio di “One morning”.
Pezzi classici e lineari, lontani dal Phillips che sfibrava la propria chitarra lambendo lidi quasi shoegaze in “Fuzzy”, ma animati dal medesimo furore. Le stimmate dei Buffalo più originali, quelli Nashville-decadenti, affiorano nella morbida “Little Moon”, quasi un sequel della boweiana “Mockingbirds”, e nei languidi intarsi chitarra-piano di “Nightbirds” e “Violet” , chiaroscuri ravvivati dalla sua consueta voce virtuosa. E che dire della pianistica di “Blind Tom”, tra il Young più solenne e gli Eels? I Coldplay camperebbero cinque anni con un pezzo del genere. E quando Grant si lascia andare ad una rassicurante e sottilmente retorica confessione in “Older now” , inevitabilmente scatta un po’ di nostalgia per i tempi in cui egli stampava versi inquieti e indelebili tipo “We hunger for a little faith to replace the fear”. Si tratta in fondo di peccato veniale, stiamo invecchiando anche noi.
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