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R Recensione

7/10

John David Souther

Black Rose

Magnifico perdente del country rock californiano, J.D.Souther ha raccolto solo le briciole della grande torta spartita fra molti dei musicisti confluiti a Los Angeles dai quattro angoli d’America (qualcuno anche dall’Inghilterra, tipo Graham Nash) a fine anni sessanta: tutti giovanotti stregati dal modo di far musica (e di prendere la vita, vieppiù) in quegli anni in California, combinando rock, country, Beatles e psichedelia in una peculiare forma di pop rotonda e brillante (Byrds, Buffalo Springfield, Moby Grape, Love i grandi nomi di riferimento).

Così che nel 1970 Souther divideva l’appartamentino in affitto, nonché i minuscoli palchi dei club losangelini (in duo acustico denominato Longbranch Pennywhistle) col nuovo amico Glenn Frey originario come lui di Detroit, in possesso di una voce abbastanza simile alla sua, assistito da un minore talento come songwriter ma d’altro canto da carisma, grinta e determinazione smisurati.

Al piano di sotto del suddetto locale si era invece sistemato tal Jackson Browne, reduce da esperienze newyorkesi non soddisfacenti (compresa evidentemente la storia con Nico dei Velvet Underground) e intento a strimpellare pianoforte e chitarra per mettere insieme le canzoni del suo imminente e definitivo rilancio.

La storia ha deciso per una carriera mostruosa a favore di Frey, riservandogli il pieno di fama e denaro grazie alle incredibili fortune degli Eagles, come pure una grande realizzazione artistica per Browne, riconosciuto e stimato cantore del migliore impegno americano su temi politici, ecologici e morali.

Il conto in banca di J.D. non è a sua volta da buttar via, l’uomo è più che benestante ma il grosso del suo agio l’ha ottenuto (suo malgrado, sicuramente) offrendo il proprio estro melodico ad altri: in particolare agli stessi Eagles dell’ex compare Frey con una bella fila di canzoni, alcune splendide: “Doolin’ Dalton”, “You Never Cry Like a Lover”, “James Dean”, “Best of my Love”, “New Kid in Town”, “Victim of Love”, “Hartache Tonight”, “The Sad Cafè”, “Last Good Time in Town” grazie alle quali percepisce cospicue percentuali delle rispettive royaltyes. Vi sono poi stati ulteriori beneficiari della sua creatività: soprattutto Linda Rondstadt, poi Bonnie Raitt (pressoché sconosciuta da noi ma una star in USA, chitarrista provetta fra l’altro oltre che cantante), James Taylor ed altri ancora.

La discografia personale del nostro comprende solo cinque opere spalmate nell’arco di quasi quarant’anni, tipica situazione del compositore, del pennivendolo più che del frontman. La Rosa Nera è la seconda di esse, allestita all’indomani dell’esperimento di gruppo condotto insieme ad un ex Byrds e un ex Buffalo Springfield (la Souther Hillman Furay Band) che aveva portato a due dischi senza infamia e senza lode, non abbastanza per potere/avere voglia di insistere in quella direzione.

Souther gioca qui la carta della classe e vi riesce anche, a partire dalla mirabile copertina con uno scatto all’alba nel sempre magico deserto californiano, doppiata da una foto sul retro che lo immortala in elegante ed ironico portamento di frac, cilindro, papillon e quant’altro. In aggiunta vi è qualche fuoriclasse ingaggiato fra i collaboratori, tipo il virtuoso Stanley Clarke in quegli anni il bassista più in vista al mondo (subito prima dell’avvento del sommo Pastorius). Ma niente slappate ed evoluzioni elettriche, Clarke è coinvolto come mero contrabbassista acustico ad accompagnare quasi da solo (a parte una tenue chitarra in secondo piano) la bella voce del titolare, alle prese colla melodia jazzata di “Silver Blue”, nella più elegante e snob delle ambiziose ballate che innervano questo disco.

La più riuscita di esse è a mio giudizio la terza traccia “Your Turn Now”, purissimo country rock ben fatto con l’acustica del titolare a disegnare l’armonia e una coppiola di chitarristi elettrici molto economi e per nulla ingombranti (Waddy Watchel su un canale stereo e Andrew Gold sull’altro) a infiocchettare e abbellire. È lo schema di arrangiamento più seguito nel lavoro: con la stessa concezione strumentale sono realizzate ad esempio anche “Midnight Prowl” e il pezzo che conclude ed intitola l’album.

Le varianti al suddetto schema prevedono il duetto con Linda Rondstadt nel walzer pianistico “If You Have Crying Eyes”, la bastardata mezza reggae e mezza calypso del brano di apertura “Banging my Head Against the Moon” nella quale la voce malinconica del nostro appare un po’ fuori contesto, ed ancora il lavoro sulla slide riconoscibilissimo (per chi s’intende di chitarra elettrica e di chitarristi, certo) di Joe Walsh che provvede a dare interesse all’accorato blues “Baby Come Home”.

Altro pezzo forte dell’album è l’intimista “Faithless Love”, strepitosamente interpretata sopra un quieto arpeggio di chitarra ed un raffinato arrangiamento orchestrale. Il timbro baritonale, solo leggermente arrochito di J.D. descrive l’ampia melodia infiorettandola di glissati, melismi, grandi intervalli tonali e quando altro, a delizia dei cultori della musica soffice adulta, capace e intelligente.

Come molti artisti mai affermatisi compiutamente e quindi lungi dall’essersi saziato e demotivato professionalmente, l’ultra sessantenne Souther è tuttora in piena attività compositiva e concertistica: un songwriter di razza a mio sentire, un eccellente artigiano di pop californiano, stimato dagli addetti ai lavori ma per qualche ragione con qualche treno perso di troppo sulla via del personale successo, rispetto ai meriti.

Certo l’ambito artistico è leggero e scevro da eccentricità e autentica originalità ma non per questo vien meno il merito, anzi ritengo sia più difficile comporre una bella ballata classica, coi soli tradizionali ingredienti (melodia, arrangiamento, interpretazione) a disposizione per poterla elevare dalla mediocrità, piuttosto che un’evidente stranezza magari snobistica. Indi per cui colleziono e risento con emozione i pochi dischi di John David Souther, segnalando questo senz’altro come mio favorito. Lunga vita a lui.

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