Meat Puppets
Meat Puppets II
Scenario interessante, quello offerto dalla provincia americana a inizio anni '80.
Our Band Could Be Your Life, cantavano quegli scriteriati dei Minutemen.
E ovunque, anche nel garage più sgangherato del paesino più inutile, ragazzini brufolosi si cimentavano più o meno seriamente con quella sorta di punk-rock caricato di pathos e di furia esecutiva degenerata che sarà detto hardcore.
Già, l'hardcore-punk: forse l'ultima grande utopia di massa della storia del rock'n'roll, pregna di ideali comunitari e anarcoidi apparentemente lontani anni luce dal peace&love dei genitori, ma in fondo pervasi sino al midollo di nostaglia per i mitici sixties e tutta la controcultura.
L'hardcore-punk, notoriamente, era un proiettile scagliato alla velocità della luce contro tutto ciò che puzzava di revival, tradizione, rockstar, classifiche: eppure, la vicinanza spirituale rispetto all'epoca in cui la musica aveva ancora un significato (in tutti i sensi possibili) era evidente; l'hardcore, in fondo, sembrava l'ultimogenito degli anni '60, il fratello bastardo e senza scrupoli del pop anni '80, il malefico guastatore del grande party del perbenismo, il nemico giurato di tutti i paladini del "divertiamoci e basta".
E allora, non deve stupire il fatto che fu proprio il ritorno mesto nel ventre accogliente della vecchia musica a garantirne la sopravvivenza artistica; e anzi, a garantire la sopravvivenza di tutta la musica alternativa americana: la tradizione ritornava a respirare grazie alle sferzate noise del punk e al suo esistenzialismo feroce. Il punk, a sua volta, poteva finalmente arricchire una formula che, riciclata all'infinito, stava manifestando limiti musicali evidenti.
La fusion prese forma, più che altro, in provincia: è lì che si sposarono lo spirito dirompente ed eversivo della nuova musica e le tradizioni secolari tipicamente americane (il country, il blues, il pop), rinnovando profondamente tutto l'universo indie-rock made in usa, con effetti che si faranno sentire molto a lungo (si pensi a tutto il country degli anni '90 ed oltre).
Ecco, tutta questa premessa per giungere al nocciolo della questione, ad una conclusione niente affatto scontata: i Meat Puppets non sono una band hardcore, se non forse (ed in parte) nel disco di debutto, eppure sarebbero inconcepibili senza l'epopea hardcore ed il suo salutare calcio nelle palle; sarebbero inconcepibili senza il salto nel vuoto dei primi anni '80.
Peraltro, proprio la natura ibrida e complessa dei Meat Puppets (tutti strumentisti di valore, cimentatisi per anni sui propri strumenti al fine di acquisire serie doti tecniche), abbinata a tenute e capigliature hippie, fu la causa dell'ostracismo dimostrato dalle frange più ortodosse dall'hardcore-punk.
Non che a Curt Kirkwood importasse poi molto: aveva trascorso l'adolescenza nei deserti dell'Arizona, a sperimentare con la mente (fra funghi, fumo e sostanze assortite), e questo spirito post-hippie pacifista, ma anche metafisico e meditabondo, intriso della disperazione nera che corrode il decennio di Reagan, è una presenza costante nella sua musica.
I suoi testi e la sua chitarra cristallina, ricolma di surrealismo e stupore evasivo (I'm a mindless idiot), sono il marchio di fabbrica indelebile dei suoi capolavori; ma le tracce punk e noise sono altrettanto importanti ed evidenti: nelle ritmiche tirate e quasi Gun Club-iane di alcuni pezzi, oppure nel timbro vocale dimesso che guarda certamente al Neil Young del reflusso targato '70s (After the Gold Rush), ma anche alle grida straccione e meravigliose di un Mascis o un Westerberg. Pare di sentire, a tratti, il fratello maggiore e un poco più saggio di Kurt Cobain.
Ecco allora che il cuore di II sta in ballate che si collocano a metà strada fra il misticismo hippie e il solipsismo introverso '80s, come We're here (quasi un tex-mex intriso di malinconia incurabile), Lost (uno fra i testi più interessanti della carriera di Kirkwood, vero manifesto del suo stupore metafisico davanti al mondo) Plateau (strepitoso schizzo in 2/4 con tanto di melodia immortale, reso celebre dall'interpretazione di Cobain datata 1994); e si conceda un ascolto anche alla leggiadra Climbing, un country-rock frizzante da cui traspare tutto il surrealismo accecante di Kirkwood (time, time, it's so sublime well they say it's non-existent but it's playing with my mind).
La chitarra è ovunque cristallina, splende di luce propria come le migliori trame del Neil Young di Everybody Knows this is nowhere: e allora non c'è dubbio, siamo in territori propriamente psichedelici, e l'atmosfera si fa sovente rarefatta e sospesa, specialmente negli stupendi strumentali (Aurora Borealis, lo scherzo country-core di Magic Toy Missing). Ma non mancano momenti più hardcore, o sarebbe meglio dire noise, vicini agli esperimenti underground dell'epoca: si dia un ascolto all'introduttiva Split Myself in two, schizzo punk che potrebbe stare tranquillamente sul primo album, arricchito da una melodia luminosa; oppure a Lake of Fire, gemma di rumore corrosa da un grido celestiale, che porta direttamente (e ancora una volta) dalle parti dei Nirvana più estremi, se non dei Drive Like Jehu versione If it kills you.
Alla fine del disco, pare che le luci del deserto dell'Arizona brillino ancora, pare che accechino: e allora io chiudo gli occhi ed immagino di sedere fra i canyon, trastullato nel surrealismo ironico di I'm a Mindless Idiot, luminosa gemma celebrativa del rapimento come fuga della mente dal mondo.
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