R Recensione

10/10

Neil Young

Harvest

Neil Young ha realizzato dozzine di album nella sua infinita carriera, ma nessuno di questi riuscirà mai a scalzare “Harvest” dal gradino più alto del podio. Non tanto per l’intrinseca qualità ( notevole, ma non superiore a quella di altri lavori del canadese, da “After the gold rush” a “Rust Never sleeps” passando per il capolavoro “On the beach”), quanto per i consensi di pubblico raccolti, per le peculiari fragranze che hanno saldato il country-rock al filone westocastiano attraverso il personalissimo prisma del suo autore e per l’influenza esercitata su una moltitudine di musicisti.

Come tutte le pietre miliari, “Harvest” è stato sezionato, analizzato e sviscerato, al fine di carpire il segreto di un incantesimo che non smette di ammaliare a 35 anni dalla sua creazione, forte di melodie e soluzioni sonore di impareggiabile semplicità e bellezza.

Qualcuno azzarda a mettere in evidenza i pochi difetti (le orchestrazioni un po’ ridondanti di Jack Nietzsche in un paio di episodi in primis), mentre è quasi del tutto decaduto il celebre appunto mosso dal critico di Rolling Stone Dave Marsh a suo tempo: ossia che il sound di “Harvest” avrebbe banalizzato e deturpato, rendendolo accessibile alle masse, il marchio West Coast. Certamente Young passò al raccolto di un credito maturato nei cinque anni precedenti. La scelta di registrare parte dell’album a Nashville fu un tributo a quel country-rock che stava conquistando sempre più consensi, dopo il rivoluzionario “Sweetheart of the Rodeo” dei Byrds ( persino Bob Dylan fu contagiato dal virus di Gram Parsons, pubblicando l’emblematico “Nashville Skyline”). Ma fin dai tempi dei Buffalo Springfield, il Canadese aveva saputo maneggiare una impareggiabile vena folk, resa unica dalla sua voce fragile, dal fingerpicking e dal lirismo sprigionato. Intarsiare tali prerogative con calibratissimi arrangiamenti di steel, slide e banjo fu dunque un logico passo successivo. La morbidezza, il nitore di buona parte di “Harvest” non scadono mai nel flaccido: è il Neil Young più sereno e ispirato, l’architetto della solitudine, della ricerca di sé stessi e dei propri sogni nei grandi spazi aperti della tradizione americana.

Se il minimalismo percussivo ( il batterista quasi rifugge indietro senza perdere l’ondeggiamento necessario), il senso di sospensione estatica e la frugalità melodica ispireranno diversi sotto generi ( dal mellow country all’indie-folk), l’apparente serenità younghiana in “Harvest” riflette le speranze della generazione baby-boomers nel riflusso di Woodstock, ancora ubriaca di innocenza, un attimo prima che il vento degli anni Settanta spazzi via tutto. Apparente perché in alcuni brani non mancano di allungarsi le nevrosi personali dell’autore e foschi accenni alla crescente disillusione dei tempi mutanti, culminate in particolare nei due pezzi che concludono l’opera. Va detto che lo stesso Canadese, come sempre inquieto artisticamente, rifuggì i bagliori del canovaccio harvestiano, temendo di rimanere intrappolato in un cliché. I passi successivi saranno quelli scorati e sfocati della “trilogia maledetta”, tanto devastante umanamente quanto superba artisticamente, per poi sfociare nel solare “Zuma”, l’album della svolta e del ritorno coi Crazy Horse.

Harvest” si apre con il soffuso incedere di “Out of the weekend”, autentico manifesto dell’opera: riflessiva e contagiosa, permeata da una tenue malinconia da fine estate enfatizzata dal magnifico lavoro di pedal steel di Ben Keith e dagli inconfondibili soffi di armonica di Neil. Il tema del pezzo è un classico di Young: la fuga dalla alienazione metropolitana verso gli spazi aperti, autentico luogo della mente. Assieme a Lou Reed, il buon Neil è stato tra i più lucidi interpreti rock dell’angoscia contemporanea. Ma se Reed ha sempre affrontato i suoi demoni rimanendo fedele alla dimensione cittadina ( la campagna l’avrà forse vista solo in cartolina), Young è appunto il cantore della fuga, delle visioni apocalittiche ( in celeberrimi pezzi come “Broken arrow” o “Last trip to Tulsa ) che in “Harvest” si sublimano in un restauro interiore pacato e sognante, da realizzare negli infiniti orizzonti dell’America più vera.

La title-track approfondisce magistralmente tale solco: una delle più toccanti canzoni d’amore di Young, un soave numero country-rock in cui l’impalcatura è retta dal pianoforte. Come sempre folgoranti sono la sincerità e la vulnerabilità di un Neil stavolta messosi nei panni del trovatore solitario impegnato a mantenere la promessa alla donna amata, il tutto con liriche incisive quali “Will I see you give more than I can take? Will I only harvest some? As the days fly past /will we lose our grasp /Or fuse it in the sun?” .

Segue “A man needs a maid”, spesso considerata la pietra dello scandalo: per il pesante inserto orchestrale della London Symphony Orchestra e per un testo accusato di misoginia, come già accaduto alla celeberrima “Cowgirl in the sand”. Sul primo argomento, è indubbio non tanto che il fraseggio pianistico venga appesantito, quanto che ben più geniali erano stati gli arrangiamenti lisergici di Nietzsche ai tempi di “Expecting to fly” dei Buffalo Springfield. L’accusa di misoginia invece è francamente ridicola. Dopo aver tratteggiato lo spaesamento della sua generazione all’inizio della decade, Neil ipotizza un riflusso nel privato, sciorinando appositamente il peggiore stereotipo del rude maschio bisognoso soltanto di una cameriera: per poi sciogliersi nell’ammissione delle proprie paure e fragilità con parole dolcissime quali “To give a love, you gotta live a love. /To live a love, you gotta be "part of" /When will I see you again?”.

Heart of gold” è invece un brano che ha sempre messo d’accordo tutti: quei quattro accordi di chitarra, gli inserti di pedal steel, il suadente controcanto di Linda Ronstadt e James Taylor forgiano un brano perfetto. Neil ci mette un’interpretazione asciutta nel descrivere la figura dell’eroico minatore in cerca dell’oro e dell’amore, muovendosi ai margini di quella “fine line” descritta nel testo come quella linea immaginaria in cui si schiudono le nostre utopie, trovandola in questi tre minuti perfetti tangibile e vicina. “Heart of gold” è uno di quei brani in grado di restituire la più pura accezione al rock, unificante linguaggio comunitario dei giovani, ma Young nutrì per esso un rapporto di amore-odio, temendo di essere considerato alla stregua di un John Denver per l’eccessiva orecchiabilità. Anni dopo infatti dirà: “Heart of gold mi mise al centro della strada. Viaggiare lì divenne rapidamente noioso, così mi spostai nel fossato. Una cavalcata più difficile, ma in cui incontrai gente più interessante”.La prima facciata del vinile si chiude col divertissement di “Are you ready for the country?”, brioso sunto impreziosito dalle voci di Crosby e Nash.

Le danze riprendono subito con un'altra epitome dell’album, “Old man”. Grandi vedute e folgoranti liriche che fungono da specchi in cui riflettersi fanno da sfondo ad una delle melodie più limpide e struggenti mai create da Neil, con un fulgido banjo che si impossessa dei suoi dubbi, Una perfetta ballata country, che lascia senza fiato nel magistrale refrain. Con “There’s a world” tornano invece gli azzardi di certe partiture d’archi, con tanto di rintocchi di campane che inficiano leggermente una tema cristallino ( la versione solo voce e piano è uscita nel recente “Live at Massey Hall”, ed è certamente migliore).

Il tono dell’album cambia improvvisamente mentre ci si spinge verso l’epilogo: “Alabama” riprende la vena anti-razzista della celeberrima “Southern Man” con impeto persino maggiore. Indimenticabile il roccioso attacco di chitarra: la sei corde elettrica torna inaspettatamente a ruggire, increspandosi tra le pieghe del pianoforte e delle armonie westcoastiane targate Crosby- Stills e regalando un solenne incedere. Neil dipinge con un mirabile gioco di rimandi e immagini l’universo sudista (“Your Cadillac has got a wheel in the ditch

And a wheel on the track”) e innescando la celebre polemica con gli amici- rivali Lynyrd Skynyrd, che gli dedicheranno la celeberrima “Sweet home Alabama” in risposta.

A quel punto arrivano i due minuti registrati dal vivo di “The Needle and the damage done”:in quell’arpeggio morboso – evidente omaggio al Bert Jansch di “Needle of death”- e nello straziante cantato di Neil si materializza l’altra faccia del sogno hippie, la droga che si porta via le menti migliori di una generazione. La discesa negli inferi della dipendenza del chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten, poco prima che l’ago se lo portasse via, fa percorrere un brivido lungo la schiena, anche ascoltandola per la millesima volta, dalle dolci e ingannevoli spire del “Cellar door” all’amara profezia finale del “every junkie is like a setting sun”. Assolutamente straniante è lo stacco dagli applausi, che chiudono il mitico brano, al violento attacco di “Words (Betweene the lines of age”, l’episodio che chiude “Harvest” con una feroce e sfibrata cavalcata chitarristica, costituendo il contraltare elettrico del pezzo precedente.

Quasi un sibilo malefico e distorto col quale cala il sipario di un album epocale, fotografia irripetibile del momento in cui la somma illusione rock del 69 – ossia che una società alternativa, basata sulla musica, fosse possibile – stava definitivamente tramontando. Niente sarebbe stato più come prima. Neil Young attraversò il buco nero di quella decade sfoderando la sua arte migliore, per poi tornare sei anni dopo, nel 1978, al celestiale sound country-rock su “Comes a time”, una volta lenite le sue ferite e uscito dal tunnel. Se guardate la bucolica copertina di quell’album potrete scovare l’unico sorriso di Neil mai apparso in cover:lo stesso che abbiamo noi, ogni qualvolta ascoltiamo le prime note di “Harvest”.

V Voti

Voto degli utenti: 9,2/10 in media su 53 voti.

C Commenti

Ci sono 32 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Cas (ha votato 10 questo disco) alle 12:25 del 22 agosto 2007 ha scritto:

wow

gran bel colpaccio Junio. davvero un capolavoro!

PierPaolo (ha votato 9 questo disco) alle 7:16 del 23 agosto 2007 ha scritto:

Ciao Junio

I miei soliti complimenti.

Alfo (ha votato 10 questo disco) alle 8:55 del 24 agosto 2007 ha scritto:

Gli irrecensibili!

Ce lo siamo già detti Junio: Harvest fa parte degli album intoccabili quelli che non si possono descrivere con le parole. Chiunque passi di qui e non abbia mai ascoltato Harvest non ha che da precipitarsi nel primo negozio di dischi, acquistare ed ascoltare una delle pietre miliari della musica rock contemporanea. Immenso.

Se qualcuno doveva provare a recensirlo è bene che l'abbia fatto tu. A presto

Nadine Otto (ha votato 10 questo disco) alle 9:01 del 26 agosto 2007 ha scritto:

Eterno stupore sulle strade polverose

Junio non lascia più niente da aggiungere.

I miei soliti complimenti per la dissertazione sentita e fosforescente su questa fetta di musica per cui Neil Young deve ricevere la corona. Metterò subito al riparo il raccolto.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 20:02 del 2 maggio 2008 ha scritto:

Com'è possibile parlar male di "Harvest"? Dico..."HARVEST"!!! Altro capolavoro del canadese e altra analisi da brividi del signor Junio che ormai è un pilastro di storia... Complimenti vivissimi. ;D

lev (ha votato 10 questo disco) alle 13:11 del 30 ottobre 2008 ha scritto:

di fonte ad un disco del genere c'è solo da togliersi il cappello, ma quanto è bella "the needle and the damage done"?

Gengis il Kan (ha votato 8 questo disco) alle 12:27 del 27 marzo 2009 ha scritto:

Nonostante sia un disco che non tutti possono permettersi di fare, non e' il disco di zio Neil. Questo era il Neil che voleva piacere, che voleva soldi e fama. Preferisco quelli venuti dopo "Harvest" o quelli precedenti... insomma, gran disco, ma Neil ha fatto cose che sono di molto superiori secondo il mio punto di vista.

sarah alle 14:43 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Album straordinario, dalla dolcezza di " harvest" e "old man" fino al trittico finale non c'è una sola caduta di tono.

bargeld (ha votato 10 questo disco) alle 15:07 del 8 luglio 2009 ha scritto:

e nei negozi è sempre in assoluto il disco che costa meno... anche meno di john barleycorn dei traffic... metteteci una pezza.

Fieldish alle 18:50 del 16 luglio 2009 ha scritto:

Inesattezze

Scusate se vi contraddico, ma Nashville Skyline di Bob Dylan non ha proprio nulla a che fare con Gram Parsons. Altre influenze...Vi consiglio di andare a vedere l'intervista di Martin Scorsese a Bob Dylan, sul dvd "No direction home".

DonJunio, autore, alle 15:54 del 17 luglio 2009 ha scritto:

Certamente “Nashville Skyline” fu l’approdo di un percorso cominciato con “John Wesley Harding” e proseguito con i “Basement Tapes”. Dylan attingeva da quella che Marcus avrebbe chiamato “Repubblica invisibile”, ossia quel corpus di tradizione musicale popolare attraverso il quale Bob intendeva interpretare a modo suo quegli anni, senza dimenticare le sinergie con “music from the big Pink’ di The Band. Ma fu anche un lavoro explícitamente sbilanciato verso quella sensibilita’ country-rock che stava dilagando nel rock Usa, con un fiorire di fiddle e steel guitar che stava per conquistare persino gente come Grateful Dead o Jefferson Airplane. Parsons fu certamente il símbolo di quella sensibilita’, se non altro perché il country-rock lo aveva inventato con la International Submarine Band, portato alla ribalta convertendo a quel verbo i Byrds con “Sweetheart of the rodeo” ( disco al quale lo stesso Dylan presto’ due brani tratti dai Tapes) e infine reso perfetto con i Flying Burrito. Non era certo mia intenzione svilire le intuizioni di Dylan o fornire un’interpretazione fuorviante della sua opera, ma semplicemente mettere in evidenza quelle affinita’ elettive che prepararono il terreno musicale all’ album qui recensito. Avrei potuto scrivere “ fu contagiato dal virus del country-rock", sarebbe stata la stessa cosa e non ci sarebbe stato nessun polverone su Parsons. Ciao!

Fieldish alle 16:22 del 17 luglio 2009 ha scritto:

Dylan non era interessato al country rock ma al vecchio country, quello di Hank Williams, di Ray Stevens, Johnny Cash: da qui viene l'ispirazione per "Nashville skyline". In una intervista disse che il country rock non lo interessava. Le versioni delle sue canzoni fatte dai Byrds non gli piacevano: ma per denaro le cedeva volentieri.

Grazie per la risposta...Ciao.

DonJunio, autore, alle 18:44 del 17 luglio 2009 ha scritto:

Forse le versioni delle sue canzoni fatte dai Byrds non gli piacevano e il genere non era tra i suoi interessi ( ma Dylan, si sa, come ogni cavallo di razza ha sempre detestato le etichette), ma dimmi se pezzi "Country Pie" o " Tonight I'll be staying here" ( con quella linea di basso cosi' dinamica e moderna) non sono country-rock purissimo.... poi su Cash e Williams quail fonti primarie ti ho dato ragione citando Marcus, ma a mio avviso “NS” puo’ tranquillamente essere inserito nell’ elite del filone country-rock.

amnesia99 alle 12:19 del 7 gennaio 2010 ha scritto:

Splendida recensione, complimenti!

In effetti le due parentesi orchestrali nel disco stonano non poco a mio parere... ma la bellezza assoluta del resto cancellerebbe anche due tracce suonate con kazoo e petoforo

Roberto_Perissinotto (ha votato 9 questo disco) alle 16:21 del 22 febbraio 2010 ha scritto:

Il country e il rock che vanno in paradiso a braccetto. Questo disco mi trasmette un senso di placida completezza interiore e di luminosa felicità; insomma, per me è come vedere il più bello dei tramonti con i raggi rossi del sole che scendono tra le colline dorate. Pochi album mi prendono al cuore come questo...solo i due pezzi orchestrali mi trattengono dal concedergli il massimo dei voti.

Bellerofonte (ha votato 10 questo disco) alle 18:28 del 10 aprile 2010 ha scritto:

Penso sia Impossibile mettere su Harvest ed interrompere il lettore prima che arrivi la fine di Words (che credo sia una delle cose più belle che le mie orecchie abbiano mai sentito).. La parola "incantesimo" che hai usato nella recenzione, calza davvero a pennello.. Complimenti

casadivetro (ha votato 10 questo disco) alle 5:18 del 23 marzo 2011 ha scritto:

Neil in uno stato di grazia.

Alesa (ha votato 9 questo disco) alle 22:21 del 9 giugno 2011 ha scritto:

Splendido album.

dalvans (ha votato 10 questo disco) alle 14:33 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Epocale

Il secondo capolavoro di Neil Young

TheRock (ha votato 8 questo disco) alle 8:46 del 23 febbraio 2012 ha scritto:

Ottimo disco, ma Rust Never Sleep è anche meglio secondo me.

bart (ha votato 8 questo disco) alle 15:29 del 7 aprile 2012 ha scritto:

Splendido!

Da leggenda Alabama, Old Man e soprattutto Words, una delle canzoni più commoventi che abbia mai sentito!

rubenmarza (ha votato 10 questo disco) alle 11:45 del 10 maggio 2013 ha scritto:

bella recensione, complimenti sinceri.

naima alle 23:04 del 11 maggio 2013 ha scritto:

E' vero, è irrecensibile, perché il suo dono più grande, credo, è quello di riuscire a farci "sentire" tutto...emozione allo stato puro...e le virgolette forse non avrei dovuto metterle.

glamorgan alle 9:05 del 22 maggio 2014 ha scritto:

è l'album di neil young che ho ascoltato di più,out on the weekend è sempre stata una delle mie favorite. L'età dell'oro della musica, quanti grandi album tra gli anni 60 e i 70, senza tralasciare gli anni 50 con Elvis e molti altri

Mattia Linea (ha votato 4 questo disco) alle 12:37 del 14 agosto 2014 ha scritto:

Pur avendo questo album nella mia collezione (poichè trovo, al di là di tutto, che sia imprescindibile non averlo), questo disco risulta noioso, ripetitivo e anonimo. I testi sono davvero splendidi ("Heart Of Gold", "Old Man", "Words Beetween The Lines Of Age", tutte e tre autentiche gemme), ma la musica è troppo distante da quella nostrana, troppo "americano" per così dire. Ciononostante, riesco a capire il perchè sia considerato un capolavoro. Il mio voto è dato semplicemente da una questione di (pessimi, che lo dicano pure) gusti.

swansong alle 14:38 del 14 agosto 2014 ha scritto:

" ma la musica è troppo distante da quella nostrana"..

Ma cosa vuol dire scusa? Stiamo parlando di un disco di Neil Young mi pare..che poi sia una questione di gusti, per carità..(e certo non mi permetto di giudicare i tuoi "pessimi", visto che non li conosco..)

Mattia Linea (ha votato 4 questo disco) alle 15:41 del 14 agosto 2014 ha scritto:

Ti faccio un esempio.

Gli America in America (appunto) sono famosissimi. Garth Brooks in America ha venduto milioni di dischi. Qui facciamo fatica a trovare qualcuno che non li conosca. Sono generi lontani: country, folk. Qui apprezziamo molto di più la melodia, i testi (guarda solo Battisti, Guccini, De Gregori). Una musica ripetitiva e "distante" come il country o il folk (ovvero il genere del disco in questione) fa più fatica ad entrare nella cultura musicale italiana. Probabilmente se noi proponessimo Lo Stato Sociale o Le Luci agli Americani ci tirerebbero dietro gli hot dog. Ripeto, è un mero gusto personale (forse più una riflessione giunti a questo punto).

Cas (ha votato 10 questo disco) alle 14:35 del 18 agosto 2014 ha scritto:

ba'... Neil Young è idolatrato in Italia come altrove. quella cultura musicale, poi, è diventata una sorta di archetipo della musica, sconfinando dallo specifico retroterra da cui è nata. buona parte dei cantautori italiani degli anni '70 (ma non solo) hanno campato a forza di country, folk e blues. ma in generale la cultura pop parte anche da lì. noi italiani non abbiamo inventato molto, in termini di pop music.

(Lo Stato Sociale è meglio non farlo ascoltare troppo in giro, sennò ci facciamo certe figure ghghghg )

fabfabfab alle 17:01 del 18 agosto 2014 ha scritto:

Va bene che ormai siamo un paese di merda, ma se barattiamo Neil Young con Lo Stato Sociale meritiamo i bombardamenti ...

Paolo Nuzzi (ha votato 10 questo disco) alle 9:41 del 28 maggio 2015 ha scritto:

Disco imprendibile, imprescindibile per ogni amante della musica. Forse "There's a world" sulle lunghe è troppo ridondante, ma qui stiamo parlando del sublime. "Old Man", "Alabama", "The Needle and the Damage Done" sono assolutamente incredibili. Tra l'altro il suo modo essenziale ed asciutto di suonare la chitarra mi ha sempre inebriato ed affascinato. Immenso Zio Neil.

Vito (ha votato 6 questo disco) alle 9:43 del 26 dicembre 2019 ha scritto:

Disco carino,piacevole,solare ,tutti aggettivi che con Neil Young ci stanno come i cavoli a merenda;l'unico brano veramente grande è the needle and the damage done,il più fuori contesto,che col suo carico di dolore e disperazione funge da preludio alla trilogia del dolore

FrancescoB (ha votato 8,5 questo disco) alle 10:21 del 26 dicembre 2019 ha scritto:

Sappi che mi stai spezzando il cuore, un album che esordisce con "Out on the week-end", ovvero con il primo pezzo di Neil Young in cui mi sono imbattuto, e che prosegue con "Harvest", merita un 8 di default; un voto più basso è punibile quale crimine contro l'umanità