R Recensione

6/10

Thrills

Teenager

"This year coul be our year…this year could be our year…" ripete con trascinante e contagiosa felicità e convinzione Conor Deasy nella traccia numero due di questo nuovo "Teenager", terzo capitolo della band più americana d’Irlanda.

Il suo accento, diventato ormai un marchio di fabbrica, è sempre li vivo e vegeto e forse ancora più marcato al servizio di una melodia fresca e spensierata (e come potrebbe essere altrimenti se stiamo parlando appunto dei Thrills, il gruppo estivo per eccellenza?).

Certo, basterebbe anche solo leggere distrattamente le liriche del disco per accorgersi che l’argomento caratterizzante, se vogliamo anche piuttosto abusato e melenso, sono le storie d’amore tra i teenager.

Viene tuttavia difficile non accostare quella frase alla carriera musicale dei cinque americani d’Irlanda, partiti come promessa su cui puntare a gruppo trascurabile e trascurato.

Il loro nome spiccò sulla brillante e luminosa scia di un singolo perfetto come "Big sur" (difficile non chiudere gli occhi e immaginare le lunghe spiagge della California ascoltandolo…) portato avanti e sorretto con estrema devozione e professionalità dal debutto su lp di "So much for the city".

Un trionfo di melodie ariose ed estive, chitarre acustiche, slide guitars, mandolini, armoniche, pianoforti, tastiere, coretti west cost anni ’60 che fanno molto Beach boys e una certa filosofia "vintage" rintracciabile anche nella copertina tipicamente sixties.

La conferma poteva arrivare già con il successivo "Let’s bottle bohemia" (2004) se solo il gruppo fosse riuscito a dimostrare che le qualità espresse nel primo disco non erano frutto solamente di un puro caso fortunato ma di un gene ben saldo nell’animo Thrills.

Invece, almeno dal punto di vista prettamente sonoro, il lavoro cambia radicalmente le carte in tavola(determinante a questo proposito l’assenza del produttore Tony Hoffer, ovvero colui che contribuì a creare quell’impasto sonoro retrò estremamente intrigante...)passando così ad un suono più corposo e costruito.

Le canzoni, peraltro già inferiori alla media di "So much for the city" (con la sola "The Irish keep gate" a rappresentare la classica eccezione che conferma la regola) vengono cosi’ letteralmente "sotterrate" da un "wall of sound" inutile e che mal si sposa con la classica scrittura dei ragazzi di Dublino.

Ne esce cosi’ un disco deludente, non brutto, ma inevitabilmente "imprigionato", "pesante" e quindi non libero di spiccare il volo verso lidi "westcostiani"…

Fallita dunque la ghiotta opportunità, è facile comprendere come il gruppo abbia riposto con estrema cura le proprie speranze sulle dodici canzoni candidate alla track list definitiva di questo nuovo lavoro.

Se chi ben comincia e a metà dell’opera, l’aver richiamato la vecchia conoscenza Tony Hoffer in produzione è stata sicuramente la prima cosa sensata e auspicabile che il gruppo potesse fare per mettere "in cassaforte" almeno il discorso sound.

Il secondo passo è quello dedicato alla scelta degli strumenti più idonei:

vengono rispolverati i mandolini ormai praticamente dimenticati e riscaldate le voci per gli intramontabili coretti che avevano fatto la fortuna di "So much for the city".

Ed è proprio da questa armoniosa operazione di "ristrutturazione sonora" che nascono, forse anche spontaneamente gli episodi che più rimandano al 2003:

"I came all this way" con il suo classico "attacco" ritmato alla Big sur e "No more empty word" con il suo demenziale, fanciullesco, immaturo ma non per questo trascurabile "du du du duddudu du du du duddudu" a precedere un ritornello che non te lo levi più dalla testa neanche col "Viacal".

Il resto è altrettanto godibile ma forse meno incisivo:

"The midnight choir" fa’ quello che ci si aspetta da una canzone posta in apertura e prende così il posto di "Santa cruz".

"Nothing changes round here" invece è la classica ballatona alla Thrills, pennellata però da una certa malinconia filo Coldplay.

Efficaci e decisamente riuscite paiono anche "Restaurant" e "I'm so sorry".

Nel finale spicca invece "Theres a joy to be found", una sorta di Brian Wilson meet Robin Mcguigan.

ovvero i cori dei Beach Boys accompagnati dalla chitarra dodici corde dei Byrds

Rientrano invece tra gli episodi meno convincenti il ricordo dei Keane in "Long forgotten song" e la lenta e "trascinata" "Teenager".

Personalmente ritengo questo disco un piacevole e gradito ritorno alle origini, un passo in avanti rispetto al tonfo di "let’s bottle bohemia" (perfetta e nitida istantanea di un gruppo che aveva smarrito la bussola, in cerca di un’identità ancora non chiara fino in fondo).

Tuttavia manca una canzone di punta, un singolo del calibro di "Big sur" per intenderci ma non solo…

Manca anche quel pizzico di imprevedibiltà che serve a differenziarsi tra le tantissime buone uscite che ogni anno affollano gli scaffali dei negozi.

Proprio per questi motivi non sarà sicuramente questo 2007 l’anno dei Thrills, ma tutto sommato poco importa…

Quello che conta è che hanno finalmente capito cosa devono e cosa non devono fare.

Forse hanno anche capito (o lo sapevano già) che non sono il classico gruppo che può scrivere grandi dischi, di quelli che entrano nella storia e che la storia la fanno (vedi i Radiohead per esempio)

Quello che però possono e devono fare è scrivere canzoni semplici e senza grosse pretese, quelle canzoni che puoi fischiettare in spiaggia, con gli amici, magari sorseggiando un birra sotto il caldo sole d'agosto.

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