Wilco
Star Wars
Jeff Tweedy, dopo qualche lavoro ripiegato verso un country elegante ma molto tradizionale, riscopre l'ebbrezza di osare. Con parsimonia.
Non torna propriamente sui territori impervi e meravigliosamente ricurvi di Yankee Hotel Foxtrot, e neppure negli abissi nero pece di A Ghost is born. Perché un Jim O'Rourke non lo inventi da un giorno all'altro, i tempi oggi sono diversi. E anche perché un disco come Yankee Hotel Foxtrot, sorretto sopra un meraviglioso e impalpabile equilibrio, ti riesce una volta nella vita. Non di più.
Ma finalmente osa.
Star Wars è uno fra i lavori più vari e sbalorditivi della lunga produzione dei Wilco, a cominciare da una copertina del tutto fuori fase, che evoca immagini di pace, ovvero il rovesciamento simmetrico delle guerre stellari del titolo.
"Star Wars" è un lavoro che fa la pace con il rumore, tanto da essere lungamente immerso in un noise temperato di derivazione Sonic Youth (quantomeno, nella loro versione più soft e accessibile).
Ma c'è decisamente molto altro: Jeff finalmente azzecca movenze e spunti melodici brillanti, a tratti quasi beatlesiani (anzi, direi più che altro lennoniani: qui non si trova l'equilibrio formale più classico di McCartney).
Rumore+melodia: i Wilco quasi si mettono a suonare un soft-grunge annacquato nella tradizione country, o qualcosa del genere.
EKG, sghemba e galoppante, sembra in effetti quasi mettere i Sonic Youth più misurati alla prova con qualche strampalata invenzione dei Violent Femmes.
More... potrebbe invece essere uscita dai solchi di Plastic Ono Band: una melodia che si trascina irregolare, un ritornello gonfio d'aria, ed ecco che nella parete di feedback spunta il sorriso sarcastico di John Lennon (il coretto che bilancia la strofa è quanto di più lennoniano possiamo immaginare). Taste the Celling prosegue sulla medesima falsariga: vive tutta sopra una discreta melodia in calando dal mood decisamente liverpooliano.
Altrove un country-noise temperato torna a farla da padrone: Random Name Generator è younghianissima nel riff, sembra quasi di riscoprire un oscura session di Rust Never Sleeps; non meno efficace è King of You, ancora beatlesiana nel disegno melodico, ma chiaramente noise-oriented nelle tramte strumentali; discreta è anche Where Do I Begin, brano più affine alla tradizione Wilco, con i suoi cambi di passo moderati ma drammatici, la melodia accorata e la voce che si spezza.
L'America prosegue con The Joke Explained, che alle orecchie del sottoscritto suona come un chiaro omaggio allo spoken-word sardonico e metropolitano di Lou Reed, e con la psichedelica Magnetized, che riscoprendo l'elettronica immerge la tradizione dei crooner in atmosfere rarefatte.
You Satellite è meno centrata ma forse più originale: un country sonnolento, annegato fra chitarre scintillanti, che evoca alcune cose dei tempi di A Ghost is Born.
L'impressione conclusiva è decisamente positiva: Tweedy non sarà più il folletto visionario di 13 anni fa, ma rimane autore di tutto rispetto. Che non ha perso la capacità di osare.
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