Balaclavas
Roman Holiday
Avviso ai futuri ascoltatori di “Roman Holiday”: dimenticare le vacanze romane dei Matia Bazar. Quello dei texani Balaclavas, al debutto sulla lunga distanza, è un viaggio da incubo, che porta nell’impero alla fine della decadenza, in un odore di marcio e decomposizione, tra paranoia e gran mascherata dell’orrore. In una marea di riprese new wave, nessuno ancora si era inoltrato nei territori dark-gotici come questo trio di Houston, alla ricerca già da un paio di interessanti Ep delle frange più destrutturate e tenebrose dei suoni post-punk tra ’70 e ’80.
In questi sette brani ci si inabissa negli scantinati più umidi e claustrofobici di quella scena, attraverso una lentissima immersione catacombale che parte dai Public Image Ltd del “Metal Box” (certamente il riferimento più riconoscibile) e arriva a dei Bauhaus narcotizzati e infettati dai Chrome. Le tre basilari componenti che fondano il sound dei Balaclavas (pochi gli interventi di synth e drum machine) si muovono, all’apparenza, bendate, ignorandosi a vicenda: la batteria di Chaz Patranella tira dritta in articolati ritmi da trance, qua e là in evidente continuità con alcuni ‘ipnotismi’ tribali di Yaki Leibezeit dei Can (si senta “Vuitton”); il basso, spesso dub-eggiante (ed ecco Jah Wobble), si dibatte nei sotterranei, paludoso, tanto che senza cuffie è spesso difficile cogliere le sue serpentine; le chitarre tagliano, lacerano, sono coltelli o pugnali da congiura (“Vuitton”, ancora), secche e strappate. La complessa struttura finale, comunque al di qua dell’avanguardia, è la somma di deliranti a-solo, l’addizione di monologhi psicotici.
Il disco, allora, trasuda una teatralità malata, anche grazie all’interpretazione vocale di Tyler Morris, istrionica e potentemente artefatta (“Roman Holiday”), che dribbla Lydon per trovare un’originalità piena di pathos, risultato di un ibrido tra recitativi e cantato. Sembra di assistere a una messinscena espressionistica, magari in installazioni post-industriali (“Up The Newel”: Nine Inch Nails?), per un effetto di tetraggine cupa e totalmente priva di luce, alimentata dalla produzione asfittica. “Night Worship”, unico momento di tregua, suona in realtà come una ballad jazzy da bassifondi puzzolenti, ricamata com’è dal sassofono di Ralf Armin (ex Culturcide), tra refoli di una sensibilità vizza alla Tuxedomoon. Pura angoscia sono “True Believers”, il cui riff sembra un lacerto surf-rock calato come deus (o meglio, diabolus) ex machina in una danse macabre, e la finale “Runes”, splendida gemma strumentale che luccica di un’oscurità impenetrabile: Joy Division + I Love You But I’ve Chosen Darkness (“The Owl”) per un pezzo che, tra glacialità e sangue post-punk, è già da piccolo culto.
Nei vinili (solo 550) è disponibile un codice per scaricare l’album e un mix techno-punk di “Vuitton”: il brano, già fenomenale, diventa definitivo, in otto minuti trascinanti che trovano l’apice nei vortici a mulinello dei ‘ritornelli’, basati su un’armonia discendente che risucchia nel gorgo.
Per anime scure. Una manna.
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