R Recensione

4/10

Bauhaus

Go Away White

Il fenomeno reunion colpisce ancora e raggiunge la stagione gothic-new wave. Sarà per nostalgia, sarà per soldi, ma è sorprendente la quantità di gruppi che hanno deciso di tornare sul palco per riproporre vecchi classici o addirittura di tornare in studio di registrazione. E se i mostri sacri Pink Floyd e Led Zeppelin resistono alla tentazione milionaria di sfornare un nuovo disco limitandosi a offrire una sola eccezionale esibizione non si può dire lo stesso per altri dinosauri che trascinati dalla propria imponente massa e da muscoli ormai consunti non riescono a soddisfare le esorbitanti attese che si vengono ad accumulare nei fans di vecchia data. Il caso degli Stooges è solo l’ultimo di una lunga fila ed appare difficilmente confutabile (anche se qualcuno in giro è clamorosamente riuscito ad apprezzare quella monnezza hard-rock di The Weirdness).

Ad ogni modo stavolta tocca ai Bauhaus, uno dei gruppi più rappresentativi del filone dark-rock della stagione new wave assieme ai Cure e ai Joy Division. È superfluo forse ricordare la carriera precedente del gruppo, che tra il 1980 e il 1983 mette in fila quattro album fondamentali per il genere, da quella perla new wave di In the flat field (probabilmente il migliore) fino al minore Burning from the inside, passando per capolavori gothic come Mask e The sky’s gone out. Poi il gruppo si spacca, Peter Murphy avvia una poco appariscente carriera solista mentre tre quarti del gruppo va a fondare i Love and Rockets.

Nel 1998 ha luogo una prima reunion che porta a pubblicare un paio di raccolte (l’antologia Crackle e la collezione di rarità Beneath the mask) e un ottimo doppio live (Gotham, 1999) che riesumano la grandezza di un tempo. Ora a distanza di quasi dieci anni da quella prima reunion e a venticinque dall’ultima registrazione in studio la band torna in studio e dà alle stampe questo Go away white. Personalmente ci si aspettava un disastro e in effetti questo è puntualmente arrivato, anche se non di proporzioni bibliche come sarebbe stato lecito attendersi.

Go away white non aggiunge nulla al suono di un tempo, anzi sembra rimasto incatenato nel modello stereotipato di dark-wave che il gruppo ha contribuito a creare. Le proficue ricerche stilistiche avviate ai tempi di Mask in cui il gruppo spruzzava con successo il dark con reggae, funk ed elettronica sono solo un ricordo e l’impianto generale del disco resta anacronistico e scarno di idee. È vero che c’è qualche accenno punk-funk in Too much 21st century (peraltro di scadente qualità) e qualche novità affascinante come Mirror remains, capace di fondere un ritmo trip-hop con chitarre acide e taglienti e un basso pulsante. Il resto però appare fin troppo omogeneo. Qua e là Murphy accenna qualche vocalizzo alla David Bowie, come in Adrenalin, forte di un semplice ma efficace wall of sound ad accompagnare abbozzi post-glam. Ma è troppo poco. Che fine ha fatto l’istrionismo di Murphy? Che fine ha fatto quella sua sorprendente capacità di variare registro e timbro da un momento all’altro in ogni brano? Dissolta nel vento, “dust in the wind” direbbero i Kansas. I pochi momenti ispirati del leader-cantante poi vanno a perdersi nel vuoto di composizioni povere, prive di spunti meritevoli. Come in International bullet proof talent dove i biascichii alla John Spencer galleggiano fiaccamente attorno al riff low-fi di Daniel Ash ripetuto in maniera martellante e (ahimè) inutile. Meglio non parlare di Black stone heart dove sembra sì di sentire Iggy Pop, ma non quello dei tempi di Fun House bensì l’ultimo misero di The Weirdness, che arranca senza voce in cerca di un appiglio.

Le canzoni poi, diavolo le canzoni... Poche riescono a cogliere nel segno: Endless summer of the damned ad esempio nella sua classicità è accattivante con quel suo potente giro di basso e quella chitarra lancinante. Anche la morbida The dog’s a vapour riesce a creare una discreta tensione che esplode in un finale circolare ossessivo. Poi però è il deserto. Undone è pesante e macchinosa nella sua pomposa epicità, Saved è un “lento” che annoia e Zikir non sembra proprio una degna chiusura. In fondo ce lo si poteva aspettare ma la delusione resta forte.

V Voti

Voto degli utenti: 4,3/10 in media su 6 voti.
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giank 5/10

C Commenti

Ci sono 5 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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ThirdEye (ha votato 1 questo disco) alle 20:58 del 21 maggio 2008 ha scritto:

Non ho parole...

dario1983 alle 3:39 del 5 gennaio 2009 ha scritto:

RE:

ho sempre diffidato nelle reunion: uno squallido tentativo di fare soldi. Ma non l'ho ascoltato e non posso giuducare.

Neu! (ha votato 2 questo disco) alle 15:21 del 29 agosto 2008 ha scritto:

orrendo

benoitbrisefer (ha votato 5 questo disco) alle 21:17 del 25 gennaio 2009 ha scritto:

Non mancherebbero qualche idea buona, qualche spunto emozionante e qualche frammentario brivido del passato, ma alla fine prevale una monotona stanchezza compositiva che dispiace dover associare ad una delle band seminali del post punk

Hexenductionhour (ha votato 5 questo disco) alle 23:19 del 21 gennaio 2011 ha scritto:

qualcosa di buono c'è...am niente a che vedere con gli album del passato...che,a sentire questo,sembrano essere solo un lontano ricordo.