Esben And The Witch
Violet Cries
Di una cosa si può essere certi: la musica è cannibale. Fatte salve le ormai sempre più rare carature artistiche eccezionali, essa sopravvive, si rinnova e si evolve - solcando i decenni - nutrendosi e dei propri cadaveri, e dei propri neonati. Li assimila, li trasforma, li rumina sotto nuove forme. A volte trovando equilibri mirabolanti, a volte producendo linsospettabile, a volte - il più delle volte, comè naturale che sia - riportando gli elementi noti entro più o meno credibili puzzle di nostalgia. LLP desordio del trio di Brighton, senza dubbi, è un puzzle nostalgico di notevole, incompiuto e stregonesco fascino. Che oltretutto riesce - per tanti versi - ad essere anche attuale.
Anticipato dallEP 33 lo scorso anno, Violet Cries arriva a confermare le ottime sensazioni destate e le grandi potenzialità del terzetto inglese. Sullonda di quella che - ormai - si direbbe una vera e propria tendenza, la proposta di Esben And The Witch riesuma le ambientazioni gotico/oniriche che furono dei primi 80, le filtra attraverso una sensibilità shoegaze, destrutturante, aperta a contaminazioni di elettronica bristoliana tipicamente nineties, le aggiorna al linguaggio del nuovo millennio: un occhio al movimento witch house, laltro allesoterismo sonico dei These New Puritans.
Così, se da una parte loscurità spigolosa di band quali Warpaint ed Effi Briest (per dire di due cui su queste pagine si è dato rilievo) ha trovato la propria funzionalità nellaccentare anche e soprattutto lelemento ritmico, gli Esben And The Witch vivono dellopposto: musica eterea ed impalpabile, praticamente sempre sospesa in un non-essere, svincolata da qualsiasi pretesa di struttura, sfacciatamente indifferente alle regole dellarmonia. Conseguenza naturale: il groove va a farsi benedire, le atmosfere dominano incontrastate. Nei pattern percussivi digitali del lavoro, in effetti, non solo non troverete continuità alcuna, ma neppure vi capiterà di sentire un solo colpo di rullante se non nel finale - insospettabilmente dance - dellambiziosa Eumenides.
Nightmare pop, si autodefiniscono. E, in effetti, di dream (pop) cè poco e niente. Violet Cries è il sogno di una notte di mezz inverno. Freddo glaciale, scuro, anthemico, irrisolto e per gran parte inospitale. Argyria introduce nel dedalo con un crescendo di rara intensità e potenza, portando lievi, delicatissimi accenni chitarristici entro squarci elettrici affogati negli effetti, misurate intromissioni di glitch e cori di autentica possessione. La vocazione per la destrutturazione è fin da subito evidente, in un brano che si scioglie - nella seconda parte - dentro arpeggi languidi e sospesi, su cui la voce algida ma agguerrita (fra Siouxie e Beth Gibbons) di Rachel Davies può stendersi in tutta la sua imperfetta drammaticità. Ci si perde poi lungo una sequenza di episodi difficilmente scindibili luno dallaltro, in una sorta di viaggio onirico senza soluzione di continuità: dalle atmosfere romantiche di Marine Fields Glow a quelle diluite, frammentate di Light Stream, dallalternanza di spigoli e immaterialità di Hexagons IV a quel pizzico di luce briosa che il charleston elettrico infonde a Chorea, dalla compiutezza melodica di Warpath ai brandelli di immobilismo della conclusiva Swans. Un viaggio senza incidenti, con qualche furberia e qualche cliché di troppo, ma in cui non si rileva né un momento inutile, né tantomeno alcun numero palesemente di punta.
La musica di Esben And The Witch origina dagli strumentali di Thomas Fisher e Daniel Coperman (chitarre e tastiere), su cui solo in seconda battuta si è pensato di appoggiare la vocalità della Davies. Questa genesi rimane evidente in un prodotto finale che non sacrifica nulla al formato canzone né, tantomeno, si piega alle bieche leggi della fruibilità sonora: sia la musica (vedi lardito insistere sulla sesta diminuita nella scheletricità di Light Stream, o lerrare atonale della chitarra in Swans) sia la voce (in Eumenides e - ancora - in Swans è prossima allanarchia armonica) seguono sentieri di sincera dedizione emozionale.
Se il risultato non è esattamente eccezionale, è per lancora acerba padronanza che il trio mostra nel maneggiare la difficile materia dellindeterminatezza sonora, perdendosi a volte in uninconsistenza eccessiva, e nella mancanza di quello spessore grazie al quale altri riescono - o sono riusciti - a rendere riff ingenui (penso soprattutto a quello di Marching Song, passato probabilmente sul manico di qualunque chitarrista del pianeta) delle autentiche meraviglie di aggiornamento classico.
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