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R Recensione

8/10

I Love You But I've Chosen Darkness

Fear Is On Our Side

Fear Is On Our Side” è il full-lenght di debutto di un quintetto di Austin, Texas, che risponde al non semplice nome di I Love You But I’ve Chosen Darkness. “Fear Is On Our Side” è, lo dico subito così che i detrattori non perdano tempo a leggere tutta la recensione, un gran bel disco, magnifico in alcuni episodi, meno brillante in altri, ma che si assesta su livelli di qualità assoluta.

Quando l’amico dark di turno, conoscendo il mio amore per Paul Newman e Windsor For The Derby, mi consigliò il gruppo, biascicando il suo inglese attraverso una pelosa sciarpa nera, dovetti farmi ripetere il nome per tre volte, senza peraltro riuscire a capirlo. “Ti amo ma ho scelto l’oscurità”, mi disse alla fine in italiano, un po’ spazientito, ed allora capii: “’Ah! I Love You But I’ve Chosen Darkness, ‘azz…”. E ne rimasi stregato. Mi parve uno dei più bei nomi che un gruppo dall’inclinazione romantica e decadente potesse darsi, così evocativo e teatrale, certamente triste, ma allo stesso tempo definitivo e consapevole. C’è infatti, in quelle parole, l’affermazione che l’abbandono ad un credo oscuro, ad una filosofia del pessimismo comporti, più o meno piacevolmente, l’ impossibilità di aprirsi e concedersi alle esperienze della vita comune, anche a quelle più fondamentali (e troppo spesso effimere) come l’amore. E’ l’accettazione di una missione superiore, ed è poesia.

Il gruppo, formatosi nel 2001, annovera fra le sue fila nomi di spicco della scena indipendente texana: Christian Goyer e Jason McNeely (Windsor For The Derby), Edward Robert (Paul Newman, Cyrus Rego), Ernest Salaz (Glorioum) e Timothy White (Salute The Curse).   Esordisce nel 2003 con l’EP omonimo, prodotto dal concittadino ed ex Spoon Britt Daniel, pubblicato per la piccola etichetta Emperor Jones (ristampato nel 2006 da Secretly Canadian). Cinque tracce che sviluppano l’embrione di un’idea: fondere una ritmica in mid-tempo che fa leva su pulsazioni palesemente eighties, essenziali, profonde e ricercate negli accenti, con chitarre e voci circolari e minimali, mai ingombranti, figlie si della new-wave ma anche dell’indie-rock della scorsa decade. L’estetica punk inglese si combina con la sensibilità popolare americana. Il risultato, per definizione e riconoscibilità del suono nonché per la qualità della scrittura, è già notevole, anche se gli elementi armonici risultano in generale un po’ deboli (soprattutto a livello vocale) e a volte incapaci di reggersi esclusivamente sul proprio valore intrinseco.  

Servono al gruppo altri tre anni e l’inserimento in formazione del chitarrista Daniel Del Favero (al posto di McNeely) per mettere a fuoco le intuizioni, registrare e dare alle stampe un prodotto in cui il salto di qualità appare davvero notevole. Quando finalmente esce “Fear Is On Our Side” è, purtroppo, il marzo del 2006. Dico purtroppo perchè se questo disco fosse uscito nel 2000 o nel 2001 sarebbe rientrato a pieno merito in quella schiera di lavori simbolo del revival eighties che ha caratterizzato l’inizio del millennio, e oggi godrebbe dello stesso rispetto che in tanti mostrano, ad esempio, per “Turn On The Bright Lights” degli Interpol. Arrivare tardi, soprattutto per il critico arido che non contempla l’emotività come parametro per il giudizio, è una colpa imperdonabile che può ridicolizzare anche il più ispirato artista. Il mio negoziante di fiducia non ha mai voluto tenere una copia del disco, e avrebbe preferito non doverlo neppure ordinare per me. “Ma quella roba lì l’hanno già fatta in tanti”, mi ripeteva fino a mettermi in imbarazzo. E aveva ragione. “Fear Is On Our Side” è un disco derivativo, chiaramente figlio di sonorità che furono innovative vent’anni fa, che arriva in ritardo persino per l’appuntamento trendy con il revival. Il fatto è che è anche un disco meraviglioso. Splendidamente arrangiato, magistralmente suonato, profondamente e sinceramente ispirato. A partire dalla stupenda copertina, minimale e suggestiva in quel suo simbolo intagliato come una cicatrice sul cuore, oscura, fatale ed evocativa. Un “must” per gli amanti del genere.  

Si inizia con “The Ghost”, ed è un inizio col botto. In una atmosfera da notte dopo l’apocalisse si odono echi di accordi che lentamente crescono, si avvicinano, si fondono con una semplice frase di chitarra e attendono…La batteria di White entra in modo spettacoloso, essenziale, potente, di gran gusto e classe. L’incedere ipnotico e marziale è scandito da un basso gigantesco, anch’esso minimale, senz’altro poco originale ma di un effetto favoloso. E’ il buio che avanza e ti avvolge. La linea di voce è una perla. Sofferta, ispiratissima, perfettamente in equilibrio fra anestesia e dolore, fra catarsi e risveglio. Sono più voci sovraincise in realtà, che cantano all’unisono la stessa frase divise solo da intervalli armonici. L’effetto di coralità che ne risulta è davvero seducente. All’introspezione si aggiunge la passione. Volessimo trovare qualcosa su cui discutere, il passaggio che porta alla variazione sul tema è quantomeno scontato a livello melodico e ai primi ascolti, in tanta bellezza, mi aveva decisamente infastidito. Ma è passato col tempo, non so a dimostrare cosa, e va detto che il ritorno al tema principale è talmente ben riuscito da giustificare la precedente forzatura.

According To Plan” è il singolo dell’album, per presa, intuizioni e fruibilità. Originariamente registrata elettronica per un dodici pollici della Artikal Records, qui trova la sua vera natura e si realizza interamente, mantenendosi ossessiva ma precipitando nel buio. Cuore di tutto è il basso distorto di Robert. Inizia solitario in battere scandendo un’unica nota per poi frammentarsi e andare a comporre, insieme al drumming pulsante, il micidiale riff che caratterizza il pezzo. Impossibile non pensare a Joy Division, primi New Order o The Sound. E’, formalmente, uno dei miglior brani dell’album. Inattaccabile dal punto di vista dell’arrangiamento e della composizione, senza un elemento di troppo o fuori posto. Anche la voce è ottima, fino alla perfezione nelle melodie del ritornello. Intramontabile.

Con “Lights” la qualità cala, ma senza scendere mai sotto la soglia del pericolo. E’ un pezzo chitarristico decisamente omogeneo, dove semplicemente risultano meno ispirate le soluzioni compositive, un po’ ripetitive, se non vogliamo dire un po’ banali. Gli stilemi sono quelli resi celebri da band quali The Chameleons, ma dire che ci sono dentro anche gli Smiths non dovrebbe suonare come una bestemmia.

The Owl” è un breve strumentale partorito in una notte afosa sul ponte di una nave dispersa. Svolge, a mio modo di sentire, l’importante ruolo di accompagnarci verso la parte centrale dell’album, l’ombelico, la meravigliosa “We Choose Faces”, che si manifesta con la calma e la sicurezza della ragazza più bella della festa. Introdotta da “Today” (che di fatto è, compreso il titolo, parte dello stesso pezzo), cresce come un respiro cosmico, dilatandosi in riverberi ed eco chitarristiche dal forte potere onirico, senza sosta, arricchendosi di volta in volta di elementi che amplificano il pathos e accompagnano in un viaggio mistico, sofferto e visionario. E’ il manifesto del disco. Qui veramente la fusione di wave e post-rock porta ad un risultato di eccellenza, che in qualche modo può ricordare, per atmosfere cupe e dense fino all’irrespirabile, i Bark Psychosis di “Hex” (con le dovute proporzioni: Hex è un capolavoro della storia della musica!) o addirittura gli ultimi Talk Talk (quelli per intenderci di “Spirit Of Eden” e “Laughing Stock”). Con una cassa ossessivamente dritta in più.

La seconda metà dell’album risulta (specialmente ai primi ascolti) un po’ meno interessante. Ma i contenuti sono semplicemente meno luminosi, non meno curati e neppure meno validi. Tutto l’album non è immediato, nonostante la sua parziale semplicità, ma nella prima parte ci sono caratteri talmente forti da affascinare fin dall’inizio mentre nella seconda questo carisma resta un poco più “sotterraneo”. Se si ha un po’ di pazienza, non si potrà non apprezzare “Last Ride Together”, altro pezzo notevole nelle sue pause e ripartente, al quale devo però muovere la stessa critica fatta per “The Ghost”. Il passaggio che porta al “ritornello” è davvero troppo banale per non far storcere il naso a chi è immerso nell’ascolto. Sono peccatucci che si possono perdonare data la propensione melodica del gruppo, e sono in effetti passaggi non oggettivamente brutti, ma davvero sentiti e risentiti e che dunque non vorresti e non ti aspetteresti da chi dimostra, in quasi tutti gli episodi del disco, una grazia compositiva assolutamente indiscutibile. Si tratta sempre e comunque di passaggi, ovvero di istanti così così all’interno di minuti eccezionali.

Gli Echo And The Bunnymen fanno capolino in “At Last Is All”, l’unico brano dove il basso fa davvero più che qualche nota, essendo il giro armonico composto da più accordi. Paradossalmente è, a parere mio ovviamente, il pezzo con il minor potenziale all’interno del disco.

Long Walk” è ancora un capolavoro. Un basso all’eroina, ipnotico e paranoico quanto estasiante, gonfia un sottofondo mobile su cui poggia il pezzo. E non serve altro. Non sentirete una sola pennata di chitarra, non una corda pizzicata. Qui basta il reverbero e la vibrazione indotta da una camionata di E-bow per avvolgere il riff in una nebbia scura e densa che non lascia scampo. La voce emerge come un lamento, una supplica, un viaggio dentro i propri dolori. L’incedere della batteria, orfana del charleston come di qualunque altro piatto di accompagnamento, è narcotico e spettrale, indolente e sublime. Insieme con “We Choose Faces” il pezzo che più deve qualcosa alla scuola shoegaze (Slowdive in testa).

La title track non aggiunge nulla a quello che già abbiamo sentito e non spicca se non per l’accuratezza degli arrangiamenti (belle le contro-voci appena sussurrate) e per la struttura poco convenzionale del pezzo. Ancora un breve strumentale (“-“, o “Dash”, o “Untitled” che dir si voglia) ci prepara per l’ultima traccia, “If It Was Me”, cavalcata epica che sfiora i sette minuti e che racchiude nel mezzo, in quella chitarra distorta, ossessiva, che oscilla come l’orologio di uno psichiatra fino all’ipnosi, ancora un’intuizione sorprendente. E’ come se di colpo tutti gli elementi si asciugassero, si riducessero allo scheletro senza rendersi irriconoscibili, per poi riacquisire qualità estetiche e accessorie a poco a poco, crescere e riaffermarsi fino a morire lentamente, inesorabilmente, per sempre.  

L’emotività è il campo in cui questo disco nasce, si sviluppa, vive. L’emotività ha quasi sempre il sopravvento sulla ragione nelle scelte tecniche (arrangiamento, complessità delle partiture, dinamica e natura del suono) e rimane il parametro principale cui riferirsi nel valutare il lavoro. Per questo è un ottimo disco. Per questo me ne frego se è derivativo, se è l’ennesimo di “quella” corrente. Non è banale, non è inutile, non è neppure trendy. E’ il tributo di ottimi artisti alle correnti ed ai gruppi che hanno amato e da cui hanno tratto ispirazione. Un tributo fatto con ossequioso rispetto, con stile raffinatissimo, con classe e gusto sopraffino. Maniacale e senza tempo, “Fear Is On Our Side” risuona nelle orecchie come un mantra  oscuro, disperato e indispensabile, che riesce a distillare il meglio di una certa cultura musicale e a disporla in forma seducente e drammaticamente emozionante.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 15 voti.
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target 8/10
REBBY 7/10
Zorba 10/10
giank 9/10

C Commenti

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target (ha votato 8 questo disco) alle 13:55 del 26 maggio 2009 ha scritto:

D'accordo su tutto (tranne forse sulle lievi perplessità verso "Lights", che è il pezzo più radiofonico del disco, sì, quasi tangente alle esperienze Editors-Interpol, ma rimanendo ad altissimi livelli). Uscirsene dal Texas tra un ranch e l'altro con un disco così buio è una bella sfida, e vinta alla grande: "We choose faces" è davvero una cavalcata new-wave/psot-rock da brividi, con la batteria che nel finale viene letteralmente sommersa dai riverberi e continua a farsi sentire soltanto per inerzia dalla lunghissima intro in crescendo, ed è roba da Mogwai che rifanno i New Order, ed è gran roba; "The Owl" dura uno sputo ma è una perla assoluta, di una tenebrosità glaciale e piena di cemento (fu addirittura il secondo singolo, se non erro, che è un'arditezza notevole); il passo di "If it was me" è quello di un esercito in lutto, potente densissimo e nero. E anche la seconda parte ha grandi momenti, con più meandri. Disco che si fa ascoltare mucchi di volte, ed è quello che fa la differenza tra tanti dischi revival wave di quegli anni e questo. Benvenuto Paolo!

Mr. Wave (ha votato 7 questo disco) alle 14:03 del 26 maggio 2009 ha scritto:

Opera che alterna episodi concreti, affascinanti, intriganti e meritevoli di stima per riecheggiare le irripetibili sonorità della ''scuola post-punk/new wave'' Ottantiana. Mi riferisco a episodi come; The Ghost, According To Plan, The Owl, Long Walk, If It Was Me e We Choose Faces. I restanti brani li considero piatti, pretenziosi e sghembi. Comunque, ottima recensione! Complimenti Paolo.

paolo gazzola, autore, (ha votato 8 questo disco) alle 15:35 del 26 maggio 2009 ha scritto:

Grazie

dei commenti critici e dei complimenti, un incoraggiamento importante!

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 21:07 del 26 maggio 2009 ha scritto:

Recensione esauriente ed ottimamente sviluppata: mi accodo ai complimenti e al benvenuto. Il disco è uno dei pochi che riascolto, con genuino piacere, del revival new wave datato 2000. Sicuramente superiore agli Editors, a mio modo di vedere, e gareggia tranquillamente con gli Interpol. Trame dense ed oscure, una disperazione amplificata da un suono riverberato, un basso che scortica le meningi ("According To Plan"). I miei pezzi preferiti sono "The Owl" (parentesi: nessuno si è accorto che nel, meraviglioso, video, c'è una diretta citazione della copertina di "Ænima" dei Tool?) e la title-track, ma tutto il disco ha in realtà un'ottima soluzione di continuità e si fa ascoltare e riascoltare mille volte.

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 0:09 del 27 maggio 2009 ha scritto:

L'ottima recensione di Paolo mi ha fatto riascoltare questo Cd che è stato uno tra i 20/30

che più avevo apprezzato nel e del 2006 (annata

che ho trovato nel complesso fiacca, rispetto a

quella precedente e successiva). L'ho riascoltato

molto volentieri, ma la mia impressione è che sia

invecchiato peggio dei "modelli originali" dei

primi anni 80 che possiedo in vinile. Votandolo

oggi sarei per un voto molto di moda ultimamente

su SDM: 6,5 (si tengono i piedi in 2 scarpe eheh).

A proposito di scarpe l'ascolto mi ha riportato

alla mente il periodo in cui io e molti miei amici

ci vestivamo come dei "corvacci" (più o meno come

si vestivano all'epoca di questo disco i ILYBICD)

e portavamo, d'inverno, degli scarponcini che un

"famoso folk singer della bassa" (Ivan Della Mea)

definì scarpe rugose da contadini. Lo stesso

"cantore", all'epoca tipico esempio di intellettuale conservatore e quasi reazionario di "sinistra", commentando una mia foto su un

"libro di nicchia" (volti della bassa padana) suggeriva che noi giovani (avevo una ventina

d'anni circa) così conciati (non era di sicuro un

fatto personale) avevamo "il vuoto dentro".

Perdonatemi se colgo l'occasione per sbeffegiarlo

in maniera non anonima (lui se vuole sa chi sono,

basta che chieda all'editore) coll'occasione, Chissà magari digitando il suo nome su google (mi

sembrava narciso all'epoca) che non compaia questa mia missiva: prrrrrrrrrrrrrr!

benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 11:23 del 31 maggio 2009 ha scritto:

Gran bella recensione dal contenuto assolutamente condivisibile. Perdoniamo ai ILYBICTD qualche lungaggine di troppo in alcuni pezzi e un cantato non sempre così incisivo (altrimenti avremmo avuto un capolavoro e non solo un ottimo disco) perché i motivi per apprezzare questo lavoro sono molti non ultima la simpatia che infondono quelli che, per loro sfortuna, arrivano o unj po' troppo tardi o un po' troppo presto.

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 22:28 del 14 giugno 2009 ha scritto:

Oggi accendo televideo: la notte scorsa è morto

Ivan Della Mea cantautore, poeta e srittore.

Era stato tra i fondatori del Nuovo canzoniere

italiano. Davvero tempestivo Rebby, complimenti.

Ho aspettato 30 anni per fissare indelebilmente

il mio rancore ... Ho sperato a lungo di avere la

possibilità di esternare di persona (a parole eh)

il mio sdegno per quel giudizio che mi aveva ferito da ragazzo. Il suo commento (anche quello

fissato indelebilmente) mi aveva dato all'epoca

un enorme fastidio anche se era rivolto, come

accennato sotto, in generale a quei giovani che

stavano crescendo e che lui non riusciva a capire.

Il mio rancore era acuito dal fatto che mi ero

prestato come modello per fare un piacere ad un

amico (Morandi, il fotografo con cui Ivan Della

Mea fece questo libro) di un mio amico e che avevo

una conoscenza discreta, anche se lui non lo sapeva, della sua opera in quanto all'Università

avevo appena svolto con il prof. Franco Piro un

corso monografico annuale su Gianni Bosio (che con

Della Mea aveva avuto molto a che fare). Ora è notorio che quando uno muore diventa sempre "più

bello" ed io non vorrei qui fare nessun discorso

ipocrita. Permettetemi solo di ritirare la mia

pernacchia, visto che ora non ha più senso. RIP

skyreader (ha votato 8 questo disco) alle 14:33 del 5 marzo 2010 ha scritto:

Grazie...

...davvero mi ero perso questo disco. Grazie al recensore per questa coinvolgente narrazione di un album tutto da scoprire, in ogni piega.

Nuova incarnazione dell'epica new-wave. Va bene, c'é molta rivisitazione, ma anche molta revisione.

Purtroppo la materia di cui è fatto quel suono derivante dai primissimi anni '80 (per non dire fine '70) si appiccica all'anima e alle dita di chi compone, lasciando il solo desiderio di calvalcare quel suono che invade, infesta e non se ne viene fuori. Bisogna lasciarsi plasmare, più che plasmare. E quindi pazienza per la deriva, pazienza per l'originalità a tutti i costi. Questo gruppo ha saputo incarnare bene questo spettro, dando "autenticamente" corpo a quelle emozioni, senza il bisogno di riattualizzare mode e tendenze. L'ho scoperto da poco e non so quanto mi durerà. Ma non mi pongo questa domanda.

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 21:55 del 14 ottobre 2010 ha scritto:

Lo riascoltavo stasera, e sul serio: che fine han fatto questi qua? Hanno pronto uno straccio di disco nuovo, o si sono sciolti definitvamente? Chi sa risponda, per piacere. Danke.

FrancescoB (ha votato 6,5 questo disco) alle 16:08 del 19 luglio 2013 ha scritto:

All'epoca questi non mi convinsero fino in fondo, belle atmosfere ma il songwriting mi sembrava - in alcuni momenti - davvero povero. Insomma speravo in qualcosa di meglio, e invece mi sono imbattuto nell'ennesimo revival-wave senza grande indentità (opinione personalissima, ovvio), che regala giusto qualche pezzo discreto.

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 12:12 del 17 agosto 2014 ha scritto:
target (ha votato 8 questo disco) alle 14:56 del 17 agosto 2014 ha scritto:

E l'autunno in vista migliora all'improvviso!

Del tutto inaspettata bellissima notizia.

baronedeki (ha votato 8 questo disco) alle 17:46 del 28 luglio 2016 ha scritto:

Album veramente ottimo non un capolavoro ma per certi versi meglio di altre band che si sono bruciate al propio esordio per non essersi ripetute cio' che non capisco e perche' aspettare 8 anni per dare seguito ad un buonissimo album di esordio

baronedeki (ha votato 8 questo disco) alle 17:49 del 28 luglio 2016 ha scritto:

Dimenticavo voto album 8