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R Recensione

6/10

Joycut

Ghost Trees Where To Disappear

Ghost Trees Where To Disappear, terzo lavoro dei nostrani Joycut, è, prima ancora che un buon disco, un disco buono. Fiero alfiere della filosofia ecologista che da sempre contraddistingue il gruppo, GTWTD si mostra - sotto questo aspetto - integro come mai prima d’ora un prodotto Joycut era stato: dal packaging al vinile, dalle colle agli inchiostri, tutte le componenti fisiche hanno origini controllate ed eco-compatibili. E quelle non fisiche, stavolta, pure: la registrazione - ad opera di Jason Howes che, tanto per chiarire la dimensione internazionale del gruppo, ha lavorato con Bloc Party, Art Brut e Arctic Monkeys - è stata fatta presso The Premises Studio di Londra (il primo in Europa alimentato esclusivamente con energia solare) e la pubblicazione ha coinciso con il giorno in cui - qualcuno, forse, ricorderà - fummo tutti invitati a spegnere l’elettrico superfluo aderendo ad una relativamente imponente campagna di sensibilizzazione al risparmio energetico (lo stereo, quindi, alla faccia dell’impazienza, immagino che quel giorno avremmo dovuto lasciarlo stare…).

I Joycut, chi li conosce lo saprà, riciclano invero anche buona parte di musiche già note. Riuscendo, tuttavia, a dare all’operazione una connotazione ancora in gran parte positiva: le radici dark/new wave tipicamente inglesi si sviluppano nella loro musica - e in questo lavoro meglio che mai - entro una dimensione di piacevole freschezza che oggi , a fronte della manifesta agonia di certo stantio revivalismo, appare quantomeno ammirevole. Colpisce, in prima battuta, la scura eleganza e l’equilibrio dei suoni (il lavoro di Howes si sente eccome) attraverso cui riescono ad emanciparsi da un linguaggio che ancora tanto deve ai Cure (si senta l’attacco di Garden Grey), ma che invero ripiega la loro pornography dentro una dimensione di vellutato, carezzevole e a volte straniante (echi del Twin Peaks Theme in 10 Pence?) romanticismo.

Il disco si sviluppa seguendo una precisa linea di omogeneità e compattezza: grande rilevanza (e ci mancherebbe) al basso e alle percussioni, chitarre ed elettronica in rapporto simbiotico nell’avvolgersi in tappeti sonori piuttosto “classici” quanto - comunque - regolarmente efficaci, una voce a suo agio negli effetti che, senza mai cercare la complessità della linea melodica, preferisce indulgere attorno a brevi frasi continuamente reiterate (molto Bloc Party - in effetti - in L@m H, Apple, Liquid e, al di là di certe sonorità quasi industrial, in L@m S) o in strutture mai troppo “mosse”, determinate sempre da un’emotività limpidamente in primo piano. C’è tanta Inghilterra eighties in questi solchi, ma non solo: i primi U2 fanno volentieri capolino in certi momenti prettamente vocali; la conclusiva W4U elogia The Smiths e Interpol in egual misura; si arriva addirittura a lambire i Pink Floyd maturi ma non marci dei ‘70 in Fake Modesty (la mente va a Welcome To The Machine) e nell’ottima Deus - shoegaze in buona parte strumentale, con schegge di post chitarristico à la June of ’44 - le cui voci aggressive evocano in qualche modo The Trial.

Ascolto morbido, molto piacevole, ma senza sussulti, ché non è che si inventi nulla. Senza voler dire che sia obbligatorio farlo: i Joycut hanno gusto, capacità ed idee chiare; hanno - ora -  un adeguato supporto tecnico e, cosa fondamentale, trasmettono con trasparenza un credo sincero, onesto e contagioso in ciò che fanno. E pur non essendo quello musicale il campo in cui solitamente si fa valere il cicconiano “Italians Do It Better”, è fuor di dubbio che questi ragazzi facciano la loro musica “straniera” meglio di tanti altri, furbi o bolliti, stranieri DOC.

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