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R Recensione

6/10

Kayo Dot

Plastic House On Base Of Sky

Sembra di tornare indietro di millenni, a sentire Toby Driver dominare l’imprendibile materiale sonoro di “Amalia’s Theme”. Sembra di guardare negli occhi spenti di un rapsodo dell’era Millennials, curvo ed ingobbito sulla cetra della società liquida – il sintetizzatore: egli se ne sta lì, immobile, a declamare i suoi versi torrenziali, aggiustando di tanto in tanto l’accompagnamento musicale, ripudiando una scala per un’altra, segmentando la strumentazione sulla storia. Non canta nemmeno troppo, Driver, non almeno sul primo pezzo: ma bravo è chi riesce a seguire la progressione armonica del brano, una dark wave fieramente antianalogica (le percussioni elettroniche di Keith Abrams, le chitarre asciugate al minimo indispensabile) dove le cellule melodiche sembrano animate di vita propria, si moltiplicano dissennatamente, impazzite, sovrapponendosi l’una sull’altra, in un’alternanza di decine di linee da vero e proprio stream of consciousness. Schizofrenia lunare. Leopold Bloom retrofuturistico. Il carico verbale e sonoro, in “All The Pain In All The Wide World”, è così eccessivo da diventare stordente: come dei Tears For Fears epilettici che procedano per lampi e fiammate, in un duplicarsi malefico di voci e backing tracks (non solo: indossate un buon paio di cuffie, e sentirete anche distorsioni sulfuree, mellotron subacquei, blast tumultuosi) che liquefa lo schema melodico di partenza in un indefinibile magma noise.

Siamo solo a due quinti di “Plastic House On Base Of Sky”, ottavo disco dei Kayo Dot e successore del sublime “Coffins On Io”, e già non ci si capisce più nulla. Nel bel mezzo della selva oscura, un unico punto fermo: la conferma delle coordinate ottantiane, a discapito del ruggente avant metal (più tutto il resto) di monoliti kubrickiani come “Hubardo”. Ma poi? Driver continua a manipolare l’elettronica e a far pulsare il suo basso, disperdendo a destra e a manca frammenti lirici, come un turbine vorticoso che spazzi ogni singolo filo di un pagliaio. Gli ospiti, numerosissimi, appongono la loro firma sulla sabbia e scompaiono, nel nulla, come se non fossero mai esistiti: il gorgo wave, come una monocroma nebbia carpenteriana, inghiotte e digerisce organi, piani Rhodes, flicorni, sax, trombe, armoniche, cembali, interi cori e sezioni d’archi (guardare i credits per credere). Gli ibridi partoriti da questa spaventosa voracità sono davvero inclassificabili – e sì che ai suoi esperimenti Driver ci ha abituato per bene, nel corso degli anni. In “Magnetism”, ad esempio, sotto un arrangiamento arty che fa sembrare i Dali’s Car un gruppo di scout attorno al fuoco, entrano in conflitto Japan e Eurythmics, stritolati da uno strapotere ritmico soverchiante, per quanto sommerso dai synth. Le tastierone di “Rings Of Earth” possiedono un’allure quasi new romantic (Omero paroliere per gli Spandau Ballet, sai mai…) che, nella seconda metà del brano, si incancrenisce in dissonanti pose goth. Poi, l’ennesimo ribaltamento: “Brittle Urchin” è un soliloquio vocale accompagnato da minimali fioretti di chitarra e synth, un bozzetto che brucia e si esaurisce prima ancora di accennare a qualsiasi evoluzione.

L’impressione generale rimane quella di partenza: “Plastic House On Base Of Sky” è un diario di allucinazioni, uno scrigno di patologie, un’onirica pièce teatrale in cui la musica senso strictu è fattore (secondario) di disorientamento. La destrutturazione all’ennesima potenza. Cerebralmente appagante, emozionalmente molto meno.

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