Labradford
Labradford
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se' costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
[Inferno, Canto III]
Faticoso e lento, pesante e stanco il passaggio di un legno spettrale su un fiume di pece. Per l'occasione, saranno due americanissimi Caronte, Mark Nelson (chitarre e voce) e Carter Brown (tastiere), a traghettarci fin dall'inizio attraverso inquietanti canali-fantasma, tra l'acciaio di catene strusciate, tombini trascinati, le profondissime linee di basso che risuonano dall'entroterra e l'alienazione di tastiere analogiche spiranti vento sospetto; una sorta di opprimente metronomo della vita, che scandisce sistematicamente i gradi della nostra rarefazione corporale: dark-wave e post-industrial per chi si fissa, come me, sui generi(s); la vaga utilità dei rispettivi aggettivi per tutti gli altri ("Phantom Channel Crossing"). Come un bisturi su carne, la prua dei Labradford affonda il gravoso peso sul placido e sinistro profilo acquoso; piccoli vortici si disegnano dai remi agitati, che incontrano e sbattono sui non-corpi di anime in affanno che cercano di risalire la piccola imbarcazione.
Capita così che il nostro duo di Virginia s'imbatta nelle carni di Graham Sutton e degli altri Bark Psychosis, anime tormentate che avevano tentato invano di attraversare l'Acheronte: in cerca della pace di un eterno riposo, concesso loro solo attraverso le note di un'unica, e ultima, melodia, immortalano per sempre la loro essenza ai languidi giri di una chitarra, all'incedere malinconico e sacrale di un organo e di un violino, e agli impercettibili sussurri di una voce morfeica ("Midrance"). Diario di un viaggio desolato, non lascia scampo anche ad altri prigionieri spirituali: dai Bark Psychosis ai Low, giusto il tempo di percepire da lontano tre lentissimi accordi di basso, chitarra in loop, qualche sghembo e pigro rintocco di metronomo... e di nuovo la voce dei sogni e delle ninna-nanne... e di nuovo l'organo scuola Canterbury, insegnamento Wyattiano ("Pico").
Seguendo le regole perverse di un simmetrico gioco di specchi, dopo l'apparente tranquillità melodica dei due brani precedenti, i Labradford ripercorrono i cunicoli bui di un nuovo incubo strumentale, questa volta alle prese con stridenti e ululanti distorsioni delle tastiere, rinchiuse un ambiente notturno da impianto siderurgico ("The Cipher"). Per dolce contrappasso, alla lunga fila di anime in pena ripescate non mancano i primissimi Godspeed You! Black Emperor, quelli del monumentale "F#A# Infinity" (non a caso della stessa label Kranky): flemmatica e ridondante nenia costruita entro gli echi cupi dell'organo, i giri indolenti di chitarra e basso, rumori dissonanti delle tastiere, e la consueta e struggente voce anestetizzante di Nelson ("Lake Speed"). Ruggine e catatonia, ma anche ammaliante sensualità para-gotica nel seguire le circolari progressioni del violino sopra un'ipnotica base di riverberi degli altri strumenti a corda ("Scenic Recovery"). Proprio quando ci stiamo per abbandonare completamente all'armonioso piacere narcotizzante, da lontano iniziamo a scrutare forme terrestri. Si materializza ai nostri occhi una sponda avvolta nella nebbia, e percepiamo l'aria sempre più pesante e oscura mentro il primo zolfo d'inferno inizia a pizzicare i nostri nasi. Prima di toccar terra, però, notiamo l'acqua farsi di strani colori: dal nero all'amaranto, dal rosso a un inaspettato rosa: un liquido, meglio, un flusso continuo rosa. E' allora che ci accorgiamo dell'apparizione, dal nulla, delle tastiere, che insieme ai rilassati accordi di chitarra e ai fumosi andirivieni di voce scivolano lentamente dentro la nostra corteccia cerebrale, rilasciando al loro passaggio frammenti ovattati di una psichedelia simil-jazzy di soffusa natura Pink Floydiana ("Battered").
Appena si dissolve anche l'ultima nota di chitarra, noi sveniamo. Ma a farci perdere i sensi non sono intervenuti terremoti divini o altri fenomeni metafisici, tutt'altro: sono bastati due semplici e realissimi uomini, che alternando vicendevolmente improvvise spire strumentali, violenze in field recording e intense estasi mistiche hanno saputo guidarci dentro selve (oscure) mai viste e attraversate prima. Il paradiso, in confronto, "è ben misera cosa".
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