R Recensione

6/10

The Mary Onettes

Islands

L’esordio eponimo dei Mary Onettes del 2007 era un viaggio a ritroso nell’Inghilterra post punk più cupa e oscura degli anni ’80. Un ascolto le cui fosche tinte spalancavano cassetti della memoria sugli anno d’ oro della dark-wave. Il successivo Islands ne è il naturale sviluppo; imitazione tanto spudorata quanto riuscita di quel suono che avremmo potuto sentire, persino percepire nell’aria se fossimo vissuti nei bassifondi di Liverpool o Manchester venti anni fa. Insomma ennesimo caso Editors, White lies o chicchessia? No. Sorprendentemente i Mary Onettes non sono inglesi, bensì svedesi. Non solo, sono prodotti dalla Labrador Records, etichetta che prima di allora non aveva praticamente mai dato alle stampe nient’altro se non indie pop.

Certo, di musica oscura la Svezia ne ha da vendere, dall’ambient gothic degli Arcana fino ai Fever ray passando per quel marasma di gruppuscoli death metal che spuntano dai boschi (ma anche dalle città) come funghi. Però in ogni caso di band che si ispirano apertamente a Cure e Joy division in Svezia non si incontrano certo tutti i giorni. Realtà dunque quella dei Mary Onettes sicuramente eccentrica, ma comunque oramai consolidata all’interno di una scena musicale scandinava che si sta facendo sempre più densa e variegata.

Ma veniamo al sodo. E cioè ai contenuti: se, come già preannunciato, la somiglianza stilistica con il precedente lavoro non manca, tuttavia un attento ascolto farà sicuramente notare che se l’ esordio del 2007 marcava una fedele riproduzione della prima dark-wave britannica, quella un po’ più legata al post punk, questo Islands presenta una band intenta a esplorarne gli angoli meno spigolosi e la fase più matura e sinfonica: così i grandi punti di riferimento sembrano essere stavolta gli Echo and the bunnymen di Ocean rain e i Cure di Disintegration e Wish, ma anche i Chameleons e i Jesus and Mary Chain di Darklands. A conferma, in Puzzles, il cantato di Philip Ekström sembra essersi adagiato nel ruolo di un Robert Smith in piena estasi da catarsi passionale, dolcemente cullato dai synth e dalle tastiere in stile New order.

L’album scivola via piacevolmente, fra suadenti ballate decadenti che ricordano i Cure più pop o gli ultimi Sound (Cry for love, Untitled) e mini sinfonie epiche dove il ruolo da protagonista è assegnato alle avvolgenti tastiere (Symmetry, Bricks), il tutto sempre con una preziosa e precisa cura per la melodia, tanto che a tratti la loro adesione agli eighties inglesi sembra passare anche per gli Smiths (God knows I had plans). La canzone più interessante è però forse Dare forte dell’accattivante entrata in scena della chitarra ritmica di Petter Agurén (molto sixties e dal tipico andamento jingle-jangle) che concorre a pennellare un tela sonora ai limiti della perfezione dark pop.

Nessuna meraviglia, nessuna delusione. Ma resta l’idea che se vorranno continuare ad occupare un posticino visibile sul palcoscenico della musica indipendente dovranno necessariamente passare per un disco (il prossimo) all’insegna di cambiamenti molto più radicali. Perché non di solo revival si può vivere. Sufficienza abbondante.                                

LINK:

sito ufficiale: www.themaryonettes.net/

myspace: www.myspace.com/themaryonettes

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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benoitbrisefer (ha votato 7 questo disco) alle 15:44 del 6 gennaio 2010 ha scritto:

Disco carino anche se un po' troppo "facile", scorre via piacevole, ma senza grandi impennate. La recensione mette bene in evidenza tanto i riferimenti stilistici (a cui si potrebbero aggiungere per quanto riguarda l'opening track i Simple Minds dei primi '80) quanto l'evoluzione formale rispetto all'esordio.