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R Recensione

7/10

Vaura

Sables

Adattandosi magnificamente ai tempi e alle esigenze che cambiano, l’ombroso supergruppo Vaura ha progressivamente completato la transizione da cantiere post-black a cielo aperto (quello dell’imperfetto e lontanissimo esordio “Selenelion”) ad autorevole voce della dark wave contemporanea: un passaggio, questo, che è figlio naturale non solo di una visione artistica autenticamente a tutto tondo, ma anche primo e fondamentale riflesso di una serie di sommovimenti che hanno interessato direttamente le vicende musicali dei protagonisti (l’attività solista del poliedrico Kevin Hufnagel, per dirne una, o i Kayo Dot del tuttofare Toby Driver). Rivendicare la propria identità di genere, per quanto spuria ed eterodossa, non ha qui senso restrittivo né peggiorativo: è, anzi, pervenire ad un’efficace sintesi di sensibilità diverse, uno spettrogramma iridescente che – nelle sfumature – restituisce un fascio di luce compatto.

Sables”, giunto a ben sei anni dal buon “The Missing”, è un disco che nel suo non regalare alcuna sorpresa può definirsi sorprendente: ricacciato alla periferia del campo funzionale il background metallico – che riaffiora, a mo’ di riemerso, solo in alcuni sporadici dettagli della texture sonora, come nel raddoppio di cassa che regala fisicità al ritornello goth del magnetico singolo “The Ruins (Hymne)” –, quel che rimane è una reinterpretazione su più livelli (ed aree geografiche) delle storiche istanze wave ottantiane. In alcuni frangenti, grazie alle capacità tecniche degli strumentisti e all’indimenticabile voce di Josh Strawn, il risultato è superbo. “No Guardians”, tra pianistiche frasi portanti e assoli pre-grunge (o post-Sabbath, a seconda della prospettiva), sembra il tentativo di soffiare sui tizzoni dei Sisters Of Mercy con un’autorialità à la Japan. “The Lightless Ones”, un intricato post punk progressivo tra Bauhaus e Marillion, è forse il miglior brano del disco. Il seghettato riff funk che sostiene le strofe di “Espionage”, su cui gattonano bassi hookiani, trascina ad un chorus fra Tears For Fears e Berlin: Berlin che, peraltro, ritornano imperiosamente nel romantico lento “Eidolon” (forse un filo troppo lungo). A voler individuare una discontinuità rispetto al passato, i brani più astratti e performativi, come “Basilisk (The Infinite Corpse)” (ma attenzione al finale, che rifulge di melodismo lunare), soffrono forse di un maggiore sfilacciamento: un’ulteriore prova della dimensione “altra” oggi abitata dai Vaura, più concreta per quanto non meno autentica.

In attesa delle prossime uscite di Dysrhythmia (“Terminal Threshold”, previsto in ottobre) e Kayo Dot (“Blasphemy”, 6 settembre), i Vaura di “Sables” sono molto di più che un semplice riempitivo per passare il tempo. Consigliato a dispetto dell’assoluta antistagionalità (o forse grazie ad essa?).

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