Nick Drake
Pink Moon
L’esito estremo di una asciutta disperazione di fronte alla vita. Questo è il senso di “Pink Moon”, terzo e ultimo album di quel formidabile genio chiamato Nick Drake.
Rievocare le canzoni di colui al cui catalogo appartengono molte delle più memorabili pagine di cantautorato, impreziosite da una coinvolgente profondità emozionale e da uno struggente intimismo sonoro e lirico che ne hanno fatto un archetipo impareggiabile, equivale a passare del sale su una ferita ancora aperta.
Chiunque abbia un certo approccio alla musica, prima o poi finisce per innamorarsi dello sfortunato cantastorie di Tanworth-in-Aden. Se passi una notte insonne, o cerchi di esorcizzare i fantasmi che impediscono di dare un senso alla tua esistenza, quale migliore colonna sonora della nuda chitarra di Drake, di quella voce così profonda che sembra scaturire dalle viscere dell’anima, capace di trasportarti in un ”percorso colorato e senza fine”(From The Morning), in cui l’intensa consapevolezza di ogni attimo vissuto si infrange contro un mondo arido e spietato.
“Pink Moon” è composto nell’estate del 1971. Un lavoro scarno e scheletrico, che porta in spalle tutto il peso di dolore, e la messe di desolazione che costellano l’esistenza dell’artista, e che sarebbero sfociate nell’inevitabile suicidio. A questo si aggiunge il rammarico per una proposta tanto eccelsa quanto immeritatamente ignorata dal grande pubblico: lavori come “Five Leaves Left” e “Bryter Layter”, coi loro intarsi di spiritualità folk, spazialità jazz e ghirigori sinfonici, erano passati inosservati in un periodo di vertiginose fughe in avanti. In un verso di “Fruit Tree”, dal primo album, c’era in fondo il suo epitaffio: “Gli uomini di talento non trovano la loro strada fino a quando tanto non è passato dal giorno della loro morte”. Il seguito è noto: oggi quello della luna rosa è un culto che vanta innumerevoli adepti, un po’ come successo a un altro genio, scrittore e contemporaneo di Nick, suicidatosi nell’indifferenza generale, quel John Kennedy Toole emarginato da “una banda di idioti”, e oggi massimo ispiratore dei vari David Foster Wallace e Dave Eggers che tanto vanno per la maggiore.
La reazione di Drake in quella estate è un testamento, una lettera al mondo in ventotto minuti, vergata con voce e chitarra, gli ultimi artigli rimasti. Arpeggi cristallini e aperti di stampo classico (“Ride”, “Which will” e “Road”), litanie crepuscolari in cui la realtà solleva intorno alle illusioni il vento del disincanto e miete, impietosa, le sue vittime ( “Place to be”, “Parasite” e “Pink moon”), spettrali echi di blues ipnotico e ancestrale (“I know”), per infine perdersi nell’innocenza della rugiada mattutina di “From the morning”, in cui le ombre della notte si dissolvono in un’ alba pregna di vive passioni. Il tutto è giostrato da un connubio tra musica e testi di fenomenale espressività. Il linguaggio drakeiano è oracolare, compresso ed ellittico. Affranto senza mai essere autoindulgente, scolpendo miniature folgoranti ed impressioniste alla Emily Dickinson. “Things behind the sun” è in tal senso il brano più toccante del lotto, l’epitome di una concezione di arte come maniera dolcemente tremenda di mettere le mani dove c’è da ritirarle incenerite e posare gli occhi dove c’è da restare accecati. Là dietro il sole, dove per sempre splenderà il mito di Nick Drake.
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