R Recensione

9/10

Animal Collective

Strawberry Jam

Ascoltare ‘Strawberry jam‘ e farsi un disegno mentale della struttura portante che lo sorregge può provocare la stessa sensazione che si prova quando si osserva la caduta nel vuoto di un gatto.

Per quanto la caduta si avvicini sempre al trasformarsi in una ovvia schienata; nella realtà, di qualsiasi natura sia la forza gravitazionale che ad essa si aggiungerà, magicamente il felino finirà sempre per atterrare soffice sulle proprie zampe senza mostrare alcun cenno di cedimento o incertezza.

E per quanto si scruti l’incredibile torsione della sua schiena per carpirne il segreto, non resta altro da fare se non rimanere stupiti dell’accaduto.

Analogamente, Panda Bear, Avey Tare, Deakin e Geologist, nell’atteso ottavo album della tribù, si inerpicano irresponsabili lungo sentieri scivolosi e male segnalati a picco sul precipizio di acute melodie iper-glicemiche e incrostate di sciroppo per la tosse gusto fragola dimenticato nello zainetto delle vacanze, correndo il forte rischio di cadere nel vuoto di un’esasperazione a base di ostentata purezza e sunshine-pop; imbottigliandosi così, e noi con loro, in un labirinto da incubo in cui tutte le uscite risultino intasate come le arterie di un frequentatore di fast food.

Sebbene quindi il rischio di parodiare se stessi sia costantemente il pericolo più intenso, i quattro, proprio come il nostro micio, escono rinforzati dalla totale libertà di movimento e follia che ancora una volta riescono ad iniettare nelle proprie composizioni, spostando ulteriormente in avanti il proprio raggio espressivo.

Preparato un pentolone fumante dove gettare tutti i caleidoscopi colorati usati in ‘Feels’, i quattro continuano fondamentalmente nell’uso degli stessi ingredienti che hanno contraddistinto il fortunatissimo predecessore, accelerando però sul percorso di avvicinamento verso una sorta di maggiore accessibilità popolare del proprio sound; percorso intrapreso nel 2004 all’epoca di ‘Sung tongs’.

Popolarità che potrebbe repellere gli estimatori di lavori quali ‘Campfire songs’, con le sue lunghe improvvisazioni e le stasi ambientali, o inversamente creare dipendenza in nuovi adepti del suono animale, cosi magnetico nel suo sfoggiare outer-folk da bosco animato, psichedelia deviata, altissime-purissime sorgenti di lsd, urla demenziali, stato brado dello spirito, sguaiato intellettualismo rivestito di incoscienza.

Se però gli ingredienti sono conosciuti la ricetta che si ottiene è leggermente diversa da ‘Feels’; principalmente per la presenza di una maggiore coesione tra le varie tracce, non proprio nel senso di strofa-ritornello-strofa, ma senza neanche allontanarsene troppo, seppur catalizzando ancora sulla voce l’elemento primario di tutti i nove brani.

Album per molti aspetti accostabile al recente ‘Person Pitch' di Panda Bear (aka Noah Lennox), che per quello che è dato ascoltare sembra divenire sempre più l’entità più influente nel processo creativo delle bestie, ma con una sostanziale differenza caratteriale-atmosferica di fondo: laddove lo zucchero di un’estate assolata e arancione rifletteva in ogni angolo chiarezza e gioia, qui regna il rosso-marrone di un’esuberanza che non riesce a sedersi a contemplare il panorama, di uno zucchero filato diventato caramello a furia di stare sul cruscotto bollente sotto il sole.

Dalle prime battute di ‘Peacebone’ si capisce che la situazione degenererà subito alle prime schermaglie; ossia partenza in corsa con il cervello in folle, un sintetizzatore scemo a dare il via spalleggiato dall’arrembaggio di una batteria con una carica minimale; dall’incipit sembra stia per partire un cd dei Need New Body.

Ma poi melodia e cori in loop, cacofonia e urla bambinesche e anarchiche sprigionano tutta la dolcezza che possiate immaginare, sparandovi in faccia un gioiellino che sprizza vita e gioia da ogni poro.

Una canzone che anche suonata a velocità dimezzata, anche solo con una chitarrina scordata, farebbe tremare i muri.

E non so per quale strano motivo, ma mi viene da pensare che i Crass probabilmente apprezzerebbero.

‘Unsolved mysteries’ ci tiene per mano regalandoci limatura liofilizzata di ‘The piper at the gates of dawn’ fino allo schianto emotivo da salvezza del mondo di ‘Chores’, con le sue melodie angeliche spruzzate verso il cielo azzurro.

Per dirne un’altra delle grosse, avete presente la sensazione di sfasamento psico-fisico di quando da piccoli si zompava sulle reti elasticizzate nella zona di villeggiatura preferita dai nostri genitori?

Ecco, ‘For Reverend Green’ sembra voler musicare quella sensazione.

Il che non vuol necessariamente dire che la band più importante della New York odierna si sia data alle reti elastiche, o che quattro star dell’intellighenzia statunitense, con amicizie importanti nel maelstrom noise come Black Dice per tacere di streghe folk come Vashti Bunyan, abbiano voluto musicare la sensazione di ginocchia sbucciate e salti verso il cielo, ben inteso, ma che quel senso di innalzamento al suolo trasuda da tutto l’album, questo sì.

Cosi troviamo ‘Fireworks’, altro sognante fiorellino pop imparentato coi Mercury Rev, per addentrarci con ‘#1’ nella colonna sonora dell’atterraggio della navicella del 'Gatto venuto dallo spazio' (e stavolta lasciamo Riley agli studenti di giurisprudenza) e venire scaraventati dritti dritti a vendemmiare in una comune freak con Syd Barrett al fianco in ‘Winter wonder land’.

Mai sazi si incontra poi il dolcissimo piano sotto la pioggia in lontananza tra gli sfasci cerebral-rumoristi di ‘Cuckoo Cuckoo’, giù giù fino ad una ‘Derek’ che chiude gettando Brian Wilson in mezzo ad una tribù di pellerossa in una notte stellata a cercare strani cactus.

Neanche a dirlo: una carica (visionaria ma non solo) enorme.

 

V Voti

Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 24 voti.

C Commenti

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simone coacci alle 13:27 del 22 settembre 2007 ha scritto:

Nonostante un'eccesso di metafore destinate a riempire gli occhi più che il cervello,ci tengo a sottolineare una cosa: non conoscevo questo gruppo e forse non me ne sarei mai inc...ehm interessato,ma dopo aver letto questa recensione sono stato assalito dall'impulso di procurarmelo,per cui suppongo che tu abbia colto decisamente nel segno. Bravo!

rain (ha votato 9 questo disco) alle 14:28 del 22 settembre 2007 ha scritto:

ottima recensione.....siamo difronte ad una delle piu importanti band degli ultimi dieci anni

Wasted Jack alle 16:43 del 22 settembre 2007 ha scritto:

Ora non esageriamo eh...

Comunque gli Animal Collective sono un buon gruppo, sentirò molto presto anche questa nuova uscita.

TheManMachine (ha votato 8 questo disco) alle 11:13 del 21 febbraio 2008 ha scritto:

Accidenti Matteo come descrivi bene la musica di questo disco, che belle immagini! Il mio pc lo sta suonando adesso, mentre scrivo. Be', che dire, per me si tratta di uno di quei dischi che in inglese si definiscono "infectuous", contagiosi, ma in senso positivo. Lo ascolti una volta e poi ci torni di continuo, non riesci più a levarti di dosso questi suoni, questi ritmi, questa tonificante ipnosi musicale. Notevole, in ogni caso uno dei prodotti discografici migliori dell'anno appena trascorso.

TheManMachine (ha votato 8 questo disco) alle 20:15 del 21 febbraio 2008 ha scritto:

errata corrige

infectious! ecco, così va bene.