Spiritualized
Songs in A & E
Sembravano ormai congelati gli Spiritualized dopo Amazing disgrace (2003). Cinque anni di assenza sono tanti per un collettivo che in oltre quindici anni di carriera (comprendiamo anche l’esperienza Spacemen 3) ha superato abbondantemente la decina di dischi. Ma i numeri lasciano il tempo che trovano e il problema più grosso per Jason Pierce, storico leader della band, era capire in che direzione rivolgersi dopo la vibrante svolta di Amazing disgrace e il suo recupero di sonorità rock-blues meno ovattate e più sferzanti. Una mossa obbligata all’epoca, per evitare di precipitare sempre più nella melassa pomposa e barocca che prefigurava Let it come down (2001). Proseguire sulla strada del ritorno al rétro rude o provare a ritrovare quell’equilibrio compositivo tra shoegaze, psichedelia e garage di aveva caratterizzato i primi spettacolari dischi?
In mezzo a questo dubbio amletico c’è però qualcosa di ben più concreto come il lettino d’ospedale in cui Pierce si è visto scorrere la vita davanti mentre rischiava di passare all’altro mondo. E questo episodio si riflette notevolmente nelle composizioni di Songs in A & E, che se ad un aspetto superficiale superficiale sembrano optare per la strada di un ritorno al candore orchestrale dei vecchi tempi in realtà rimangono indelebilmente marchiate dalla voce roca, flebile, quasi increspata di un Pierce miracolato che si sorprende a sussurrare con una sincerità sconcertante. Un tipo di cantato che rievoca per certi versi l’ultimo Johnny Cash di American V. Si sente quel qualcosa che va “oltre”, che sfonda il mero aspetto artistico del brano e va a toccare un’essenza sconosciuta e primordiale, quasi come uno di quegli squarci nell’assoluto di cui parlava Montale.
È questo aspetto che rende Songs in A & E il miglior disco del gruppo dai tempi di Ladies and gentlemen we are floating in space (1997). Non tanto per le sue composizioni che restano poco più che elementari (la ninna nanna Goodnight goodnight) o impreziosite dalla solita elegiaca raffinatezza orchestrale (Soul on fire, Don’t hold me close, The waves crash in) che però non riesce a nascondere una certa pochezza di fondo.
Non mancano però le ballate davvero intense e riuscite come Borrowed your gun, la malinconica Death take your fiddle (ricordi degli ultimi Warlocks spalmati di folk-blues), la morbida Sweet talk (in cui si fondono mirabilmente gospel e soul) e l’atmosfera sognante e notturna di Sitting on fire.
E in mezzo a tutto questo candore per fortuna Pierce riesce a piazzare qualche accelerazione in grado di tenere sull’attenti l’ascoltatore: I gotta fire è un incrocio perfetto tra Rolling Stones e i loro epigoni Primal Scream; la trascinante You lie you cheat è un garage-rock elettrico che connette ottimamente il puro feedback a melodie 60s; il riff di Yeah yeah sarebbe degno di entrare tra i classici di Sticky fingers o Exile on main street.
Baby I’m just a fool infine è un curioso free-folk di sapore 70s che sembra incrociare le guasconate hippy dei Brian Jonestown Massacre e un bluesman dei 50s.
Il materiale e l’ispirazione non vengono a mancare insomma, ma quell’onesto languore di cui si è parlato sopra rappresenta allo stesso tempo il punto di forza e il limite maggiore del disco, che non sembra riuscire a concretizzarsi nella sua completezza, rimanendo spesso intrappolato in un’aureola di classicità priva di mordente. Rimane comunque un gran bel sentire per un fredda giornata d’autunno e i fan di vecchia data non potranno certo lamentarsi.
Tweet