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R Recensione

5/10

Calhoun

Heavy Sugar

Everybody else is doing it so why can't we?

Non è solo l'esordio dei Cranberries, è anche quello che devono aver pensato i Calhoun, ascoltando l'ultimo album dei Band of Horses, e soprattutto assistendo al suo successo commerciale.

Infatti sembra proprio che la band texana, capitanata dal duo Locke-Roberts, ed in seconda fila dai già noti come Little Black Dress Pipes e Thies, abbia voluto emulare la svolta pop effettuata dai più noti compatrioti di Seattle. Se tale scelta poco aveva giovato, dal punto di vista musicale, alla banda dei cavalli (io stesso rimasi sconcertato nel sentirli passare alla radio della Coop mentre facevo la spesa), ancor meno giova all'impersonale suono di questo gruppo, che già aveva galleggiato nei precedenti (3) album su di un incerto pop-folk-country mestamente Lo-Fi.

Per il loro quarto disco i Calhoun, seppur autoproducendosi, hanno cercato di fare le cose un po' più seriamente, affidandosi a James Barber (già arrangiatore per Ryan Adams e Hole) e imponendosi come ispiratori band del calibro di Fleetwood Mac, The Smiths, Grandaddy e Nada Surf (?).

Eppure anche mettendoci tutto l'impegno e la fantasia possibile, questo Heavy Sugar non presenta nessuna parentela con gli artisti sopraccitati, se non con la giovane band newyorkese, e putroppo questo non rappresenta un punto a loro favore.

A dirla tutta il disco non parte neanche troppo male con Knife Fight che, seppur smaccatamente scopiazzata dagli ultimi Band of Horses, è sorretta da una buona struttura melodica. I problemi però non tardano ad arrivare e gia al secondo pezzo, Thrown in the Universe, ci si accorge che i Calhoun hanno pigiato un po' troppo il tasto del pop ed abbondato con lo zucchero, senza esagerare siamo dalle parti di un poppettino insipido e fastidioso, alla Savage Garden per chi purtoppo se li ricorda.

La situazione migliora immediatamente con la folkeggiante Lioness, segno che restando nel loro territorio, questi texani qualche carta da giocare ce l'avrebbero anche, come conferma la successiva Horsefeathers, pezzo ancora in odore Band of Horses, ma stavolta molto più vicino alle cose migliori di Bridwell e soci.

Il disco cade ancora in picchiata con la moscia e noisosa Heart of Junk, dove rabbrividendo incontriamo di nuovo il fantasma dei Savage Garden, e non sarà l'ultima volta!

Tralasciando completamente i prescindibili esperimenti di sound anni '80 rappresentati dalle bruttine Don't let go e Indian melody, arriviamo ad uno dei momenti migliori del disco: Till the real you returns è una delicata ballata che sintetizza al meglio il folk rock "barbuto" di questi ultimi anni, dai soliti Band of Horses ai Fleet Foxes.

Il livello resta buono con la successiva Ryders, dove gli intenti pop della band ben si legano alle proprie peculiarità, dando vita ad un pezzo godibile, solare e per niente stucchevole.

E proprio quando il peggio sembra passato, arriva Many Happy Regrets, Savage Garden al 100%, ed io comincio a guardarmi le spalle temendo l'imminente arrivo del temibile duo australiano.

Fortunetamente siamo quasi alla fine, ed a dirla tutta il disco non si chiude neanche male con l'ennesimo omaggio a Bridwell (Hey mistery) ed un'inattesa ballata incredibilmente vicina ai Low Anthem più ispirati

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