R Recensione

8/10

Chris Robinson

New Earth Mud

Il grande cantante americano propose questo suo primo disco solista all’indomani del litigio col fratello Rich Robinson e del conseguente “congelamento” del loro gruppo Black Crowes (oggi sono di nuovo insieme, in sella alla formazione). L’uomo era qui in evidente fase serena, innamoratissimo (ettecredo) della moglie Kate Hudson e voglioso di far vedere il suo valore come songwriter ed interprete, posto che il disco si risolve in una lunga sequela di solari e piacevolissime ballads, punteggiate ogni tanto da qualche episodio più mosso.

Il salto dal frastuono rockblues e sudista dei Corvi Neri è molto netto, al di là dello stile peculiare e riconoscibilissimo del nostro. L’assenza dei rumorosi suoi compagni di gruppo, soprattutto del bombastico chitarrone di suo fratello, consente a Chris di portare totale controllo e ispirato trasporto alla sua performance. È proprio bella la voce di questo musicista, intensa e piena d’anima pur nella sua acutezza di timbro. Robinson dunque smette per l’occasione di urlare (cosa che gli riesce alla grande nei Crowes, in ogni caso), toglie potenza e inietta intimismo, cavandosela benissimo in questa sua nuova versione accostabile al Neil Young semiacustico.

Intendiamoci, del grande canadese non può avere la statura poetica e l’unicità, Chris non è cantautore, tanto meno caposcuola, è precisamente un dotatissimo vocalist con decise e piacevoli radici negli anni settanta. E se con i Crowes da sempre esplora e ottimizza, di quegli anni, la caciara Rolligstoniana e sudista, rimasto da solo preferisce appoggiarsi a dischi come “Harvest” appunto, nonché quell’ “Every Picture Tells a Story” capolavoro dell’ancor giovane e focoso Rod Stewart e in definitiva indicabile come il più giusto progenitore di quest’opera.

Quasi tutte le dodici canzoni sono quindi condotte dalla chitarra acustica, epperò molto impreziosite da una produzione principesca, come solo in America sanno fare. Fraseggi squisiti e pulitissimi di pianoforte, di chitarra elettrica, di tastiere, suoni equilibrati e indovinati, un corollario di classe per far risaltare al meglio melodie e sfumature timbriche del temperamentoso cantante.

In qualche caso l’arrangiamento sfiora curiosamente il plagio: ad esempio la steel guitar in “Silver Car” è talmente uguale, in tutto e per tutto, a quella Gilmouriana di “Breathe” (su “Dark Side Of The Moon”) da far pensare ad un campionamento. È questo uno dei miei brani preferiti dell’album, insieme al trittico finale composto dal funky/soul “Ride”, dal mid-tempo “Better Than The Sun” e dalla moderatamente psichedelica chiusura “She’s On Her Way”. Toccante anche la dedica diretta alla moglie “Katie Dear”, bel quadretto di cisposo risveglio di coppia in tarda mattinata in piena New York (era una camera del Plaza? Chissà…), un po’ triste da ascoltare ora dato che i due non da molto hanno finito per divorziare.

Per chi è arrivato ai Black Crowes dalla parte metallara, questo disco non può che rivelarsi poco interessante. Per chi invece ama ascoltare anche musica rilassata, moderata ma ispirata, con all’opera una delle grandi e riconosciute ugole d’America, e poi magari i Black Crowes li conosce e li ascolta anche volentieri, perché sono grandi, ma non certo tutti i giorni… meglio ogni tanto, in un contesto di molti altri generi… allora ci siamo.  

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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