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R Recensione

6/10

Conor Oberst

Upside Down Mountain

Di Conor Oberst, al di là delle beghe legali e delle (infondate) accuse di stupro subite negli ultimi tempi, preoccupava solo che l’ultimo buon disco (l’eponimo) l’avesse pubblicato nel 2008, prima di terminare poco gloriosamente l’epopea Bright Eyes con un album mediocre (“The People’s Key”, 2011, suo ultimo segnale di vita artistica). Sei anni fa, dunque. Tanti. Tantissimi, per uno che le sue cose migliori, e tra le migliori in assoluto del cantautorato americano recente, le aveva rilasciate nello stesso arco di tempo (dal 2000 di “Fevers And Mirrors” al 2005 di “I’m Wide Awake, It’s Morning”). Davvero il ragazzetto sfrontato di Omaha, una volta cresciuto, non ha più niente da dire?  

Upside Down Mountain” un po’ conferma, un po’ smentisce. Le cose da dire ci sono ancora, e vengono espresse con il consueto piglio lirico, ma assieme concreto e pieno di piccoli nuclei narrativi, tipico della scrittura di Oberst, che rimane tra i cantautori più dotati, dal punto di vista testuale, in circolazione, e sempre tra i più abissali e attenti ai motivi della morte e del passaggio del tempo («I'm so bored with my life but I'm still afraid to die», e oltre: «I hope I am forgotten when I die»). E c’è ancora, pure, la capacità di inserire melodie efficaci in una resa strumentale semplice, a volte ridotta all’osso a volte più lussureggiante, ma quasi mai banale, con una voce che il suo timbro e la sua inconfondibilità ormai li ha felicemente trovati.

A non convincere del tutto, in compenso, è l’insieme: pezzi di schietto folk rock (un po’ come gli ultimi Okkervil River) dai colori vivaci e fanfara al seguito (“Zigzagging Toward The Light”, il tribalismo un po’ a buon mercato di “Hundreds of Ways”, le schitarrate più rudi di “Kick”) non si incastrano sempre felicemente con i momenti più pensosi, che a ben vedere – non a caso, direi – continuano a essere i meandri dove Oberst dà il meglio: dalla nuda riflessione sul tema della paternità, con sorpresa finale, di “You Are Your Mother’s Child” alla dolce visionarietà di “Night at Lake Unknown”, dagli accordi in minore con puntelli di steel guitar e ritmica minimale di “Artifact #1” al profluvio in chiave slowcore di “Desert Island Questionnaire”.

Ne viene fuori un disco-mondo a cui, se fosse stato un libro, sarebbe stato utile un po’ di editing, magari cercando di trovare una direzione più precisa e una maggiore omogeneità. L’impressione, cioè, è che Oberst possa tornare ai livelli di grazia solo in virtù di qualche nuova ossessione che impronti da capo a coda un suo disco, mettendo da parte la volontà, in “Upside Down Mountain” piuttosto evidente, di dire tutto. Le occasioni ci saranno: Oberst, e questo album lo dimostra, vede ancora le cose giuste come ha da fare un bardo come lui. Bisognerà curare meglio di scartare quelle sbagliate.

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redbar alle 21:01 del 15 settembre 2014 ha scritto:

Dopo averlo visto dal vivo, mi sono convinto: figlio di un Dylan minore.