R Recensione

6/10

Dioniso Folk Band

I Testardi Fiori Della Speranza

A Dioniso, dio greco del vino, e alla spontaneità dei riti dionisiaci, dedica il proprio nome la Dioniso Folk Band, sei ragazzi napoletani che arrivano oggi all'esordio dopo cinque anni di concerti e collaborazioni con associazioni e organizzazioni quali Greenpeace, Legambiente e Amnesty International.

Una band con le radici ben piantate nella cultura musicale napoletana (al disco hanno collaborato musicisti già al fianco di Eugenio Bennato e Daniele Sepe, oltre che a componenti della storica Nuova Compagnia di Canto Popolare), ma aperta alle influenze folk più diverse, dall'Irlanda al Mediterraneo, fino al nord della Francia. E questa varietà di influenze appare già all'inizio del disco, dove al primo brano, “La ballata dei buoni propositi”, una classica ballata di irish folk, si contrappone “Il mondo alla fine del mondo”, brano ispirato dall'omonimo libro di Luis Sepulveda, in cui sembra di sentire i migliori Musicanova, accompagnati da un violino irlandese. Uno dei brani migliori del cd, in cui ricorrono immagini dalle periferie del mondo (Seul, Nairobi, Kabul, Napoli, Khartum...), un canto di dolore per le terre depredate e le popolazioni affamate, ma anche di speranza per il futuro (“non saranno i governi a fermare il cammino dell'arcobaleno”).

A completare il quadro delle musiche di riferimento della band, “Il mercante della sganasseta” si tinge di sapori e colori arabi e mediterranei. Il mediterraneo ritorna a sorpresa in “Le Grand Coureur”, un altro dei vertici del disco. Brano della tradizione bretone, che avevamo già conosciuto grazie alla riproposizione di Ginevra di Marco, ma che qui, con un colpo di genio, viene cantato in quattro lingue (oltre al francese, anche arabo, ganese e liberiano), per rendere appieno la storia di questo sfortunato vascello di pirati, con un equipaggio composto da ex marinai francesi, irlandesi e clandestini vari, ultimi tra gli ultimi, sempre pronti al naufragio, alla sconfitta o al bottino più inutile (patate marce o letame). Sorpresa nella sorpresa, all'interno del brano spunta un canto partigiano eseguito da una banda di ottoni, e infine arriva pure un accenno di reggae.

Altro punto di riferimento della band sembra essere De Andrè. Tanto in “Non si ammazzano anche i pipistrelli così”, ballata in puro stile De Andrè, in cui ci si prende gioco con ironia e intelligenza dei “nuovi poeti” (e il riferimento esplicito è al loro concittadino Gigi d'Alessio. Avrà letto il testo? Ma soprattutto, lo avrà capito?), quanto soprattutto nella acustica “Via della cattiva strada” (splendida la strumentazione usata nel brano) in cui con un intrigante gioco di citazioni (si cita De Andrè che a sua volta cita Dylan) si racconta di come la libertà intellettuale, al momento del rendiconto finale (davanti a Caronte), valga più del denaro.

Ma la libertà intellettuale ha un prezzo, che non tutti sono disposti a pagare. Di questo si parla in “Pensieri di provincia” dove ci si chiede “quanto costa avere un'opinione”. Brano lento, con un testo riflessivo, tra i più riusciti del disco. Non mancano brani più irish folk, come “Campo di mine”, dove con un impeto quasi punk si parla dei partigiani e della necessità di mantenere vivo il loro ricordo ed esempio, o la conclusiva “Considerato che”, altro gran testo, un brano che lotta alla pari con le cose migliori dei Modena City Ramblers.

Un disco pieno di citazioni colte, in cui si passa da Sepulveda a Pirandello, da Gandhi a Italo Calvino (fino all'omaggio a Woody Guthrie raffigurato sulla copertina del libretto), alcune dichiarate altre più nascoste, da scoprire ascolto dopo ascolto.

 

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