Eaves
What Green Feels Like
Il cantautorato obliquo e passionale di Joseph Lyons aka Eaves è stato accostato, più per inerzia che per reale sentire, a quella scena indie-folk che nel corso dell'ultimo decennio ci ha regalato i vari Fleet Foxes, Midlake e compagnia cantante. A onor del vero, qualcuno ha anche scavato più in profondità o perlomeno cercato di sviare da facili proclami, intuendo un talento che affonda le sue radici tanto nel folk progressivo britannico dei '70s quanto nel verbo di un outsider (perchè questo era, checchè ne dicano i maligni e/o fanatici della gloria post-mortem) dell'alternative-rock dei '90s come Jeff Buckley. Proprio Buckley Jr. e il John Martyn altezza Inside Out (1973) paiono i numi tutelari di questo polistrumentista ventitreenne dall'infanzia sballottata tra Bolton e Leeds, ancora adesso lineamenti da ragazzino e intensità dello sguardo.
What Green Feels Like (Heavenly, 2015) beneficia dell'apporto di un produttore intelligente come Cam Blackwood, il tramite attraverso cui le composizioni di Eaves si schiudono in tutta la loro ricercatezza armonica, in quei dislivelli strutturali da scrittura aperta che gli arrangiamenti - moderni, evocativi - esaltano senza strafare. Ecco che il fingerpicking in apertura di Pylons non è che prologo di un percorso segnato da picchi e avvallamenti, dove gran gioco hanno le percussioni, i fiati spalmati in modalità minimalista, impennate elettriche e naturamente una voce che è fiamma, a suo agio tanto nei registri più bassi quanto nei falsetti. L'amalgama di tutti questi elementi produce gioiellini quali l'ancestrale As Old As The Grave, l'irrequieta e mai così buckleyana Dove In Your Mouth, i delicati/intricati saliscendi melodici di Spin. Su tutti Hom-A-Gum, col pianoforte a infrangersi maestoso come onde contro gli scogli o placarsi in droni celestiali, dettando il tempo di un viaggio astrale gemmato di preziosismi (rullante e tom tom sullo sfondo, chitarre tremolanti, il finale con ottoni e coro a librarsi nell'etere).
E se sono giustappunto i trip a garbarvi, non perdetevi gli otto minuti di Purge: delirio che parte in solitaria, come una Exit Music (Radiohead) in salsa western, per poi sfociare, dolcissima e sfatta, in un vortice psichedelico da Le Mille e una Notte. Se invece prediligete la dimensione intimista (per chi scrive l'unico punto debole di Lyons), allora non fatevi scappare Timber (il Neil Young pianistico di After The Gold Rush è davvero a un passo), una Alone In My Mind tutta arpeggi in minore con altre ascendenze radioheadiane nell'armonia, e infine la lunga, conclusiva Creature Carousel, notevole per scrittura ma penalizzata dall'accompagnamento chitarristico troppo spoglio.
Ragazzo da tenere decisamente d'occhio, questo Eaves. Già adesso dimostra un talento di varie spanne superiore a un buon 90% dei suoi colleghi singer-songwriter, vedremo se avrà la determinazione necessaria per evolversi ulteriormente e imporsi con un album all killer no filler. Incrociamo le dita.
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