Fanfarlo
Reservoir
«Ma... sembra di ascoltare gli Arcade Fire!». Quante volte lo abbiamo detto, pensato, scritto, negli ultimi anni, per una canzone, un disco, un gruppo? Parecchie. Spesso in equilibrio tra un sotterraneo entusiasmo e uno sconforto fomentato dall’eterno desiderio di cose nuove. Stavolta il primo prevarrà sul secondo: assicurato.
Attivi già da quasi tre anni, ma per lo più attraverso Ep e singoli pubblicati con discreta parsimonia, i londinesi Fanfarlo debuttano finalmente sulla lunga distanza, e lo fanno autoproducendosi e autopromuovendosi durante la tournée iniziata a metà febbraio; una scelta tanto tenacemente autonomista quanto bizzarra, se si considera che, come ammettono loro stessi, sono numerose le etichette che se li stanno contendendo. Una scelta che da sola è sufficiente per scansare la band dall’intera scena musicale londinese, per lo più stancamente appesa al cappio delle cravattine indie rock e degli elogi sbrodolosi in stile NME alla next big thing di turno. Il registro dei Fanfarlo, si intende, è diverso.
Sarà che Simon Balthazar, il leader della band, è svedese, e sarà che ormai le geografie musicali sono sempre più disorientanti, tant’è che questo disco non suona come nulla di britannico, ma tutt’al più come un curioso incrocio tra Win Butler & Co. e Clap Your Hands Say Yeah!, tra folk rock americano e scena indipendente canadese, con tutto lo strascico di fisarmoniche, trombe, violini, organi, clarinetti e mandolini che questi riferimenti implicano. E proprio di strascico si può parlare per l’incipit fracassaro del disco, con un tom battutto rozzamente e accompagnato da battiti di piedi e claps pesanti, a mimare l’ingresso in scena di un collettivo invadente e scalcagnato. Piano e basso, poi, lanciano la melodia, fino a quando l’attacco vocale di Balthazar, seguito da una massa di violini, non riunisce tutto sotto un segno di nostalgico calore (sentitevi, anche solo per curiosità, l’«all the time» pronunciato al secondo 31: si fatica a crederlo, ma non canta Win Butler).
Lo stile del disco è estremamente compatto, nonostante le strutture dei pezzi molto spesso tendano a indebolirsi dopo un paio di minuti per lasciare spazio a variazioni che spazzano qualsiasi rischio di monotonia melodica. Lo dimostra alla perfezione “Ghosts”, che dopo una prima parte guidata da violini e basso (due costanti forti dell’intero album) e tenuta come sulla corda, sfocia in una seconda parte trascinante, con la tromba e l’intera atmosfera di folk a briglie sciolte che non possono non ricordare certe cose recenti degli Okkervil River.
E così via scalpitando: i momenti morti latitano. Dalla spaccatura in due, sfrenamento + elegia, di “Luna”, il cui segmento elegiaco è supportato da clarinetto, violino, tromba e tastiera a fiato (!!), al tenue contrappunto di “If It Is Growing”, dalle partiture festose color autunno di “Fire Escape” al piano martellante di “Drowning Man” (“Rebellion” docet) col suo apice di voci che si rincorrono e finale orchestrale alla Sigur Rós: i Fanfarlo si dimostrano musicisti con le contropalle e onesti compositori. “Comets”, forse, nel coniugare arrangiamento pieno e songwriting avvolgente, è la vetta del disco.
Ecchissene se assomigliano ai primi Arcade Fire. Hanno fatto un gran bel disco: e di next big thing, stavolta, parliamo noi.
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