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R Recensione

7,5/10

Joni Mitchell

Shine

Shine”, già vecchio di otto anni, è con grandissima probabilità destinato al ruolo di ultimo album di studio per la bionda cantautrice canadese, date le non certo rassicuranti notizie sulla sua salute dopo l’aneurisma occorsole a marzo di quest’anno. Ma se così fosse, non ci si potrebbe lamentare di tale commiato artistico: l’opera è intensa e di qualità e la sua voce, definitivamente compromessa dai milioni di tiri di sigaretta fatti transitare per le esimie corde vocali tanto da perdere del tutto l’argentina estensione sopranile di un tempo, sfoggia però autentica comunicativa, ironia e penetranza specchio dei tanti anni di vita intensa ed inquieta, da vera artista.

Era stato il pianista jazz Herbie Hancok, uno dei tantissimi suoi illustri colleghi ammiratori, a convincerla a rientrare in studio per creare queste musiche, rinnegando il definitivo ritiro dal business deciso all’inizio del nuovo millennio e debitamente strombazzato dai media. E bravo Herbie allora: la Mitchell di “Shine” è una donna ancor fascinosa seppur segnata, senza velature dell’intimo e qualsivoglia ritegno come sempre ma anche dura, realistica, intrigante in una maniera nuova, più pericolosa, più lirica e funerea. Una specie di Marianne Faithfull losangelina, con un soffio di voce adulta e contemplativa, sfibrata ma seducente, sempre da fuoriclasse anche se ora mantenuta un’ottava buona al di sotto dei bei tempi andati. 

Il disco di Joni al solito alterna ballate pianistiche, con lo strumento che sbocconcella rivolti un po’ jazz che solo lei è capace di mettere insieme, ad episodi chitarristici leggermente più lineari, epperò ancor più al solito concepiti ricorrendo ad una pletora di accordature anomale, una varietà così grande da rendere necessaria l’elaborazione di una speciale chitarra elettronica, progettata e realizzata solo per lei dalla Roland: una simil Stratocaster computerizzata, capace di tenere in memoria e mettere a disposizione della musicista con un semplice click qualsivoglia tonalità per le diverse corde, sì da non dover penare sulle meccaniche per tirarne o smollarne qualcuna in continuazione.

Intorno alla sublime, stilosa performance vocale e strumentale di questa maestra, anzi di questo colosso della musica americana del secolo scorso, si muove la solita crema del giro musicale californiano pronta ad accorrere al suo richiamo come sempre: stavolta c’è un fantastico sassofonista, laconico e dinamicissimo, a nome Bob Sheppard, poi l’ex marito Larry Klein al basso, l’amico di sempre James Taylor che fa una comparsata alla chitarra, il perfetto batterista jazz Brian Blade, il percussionista per tutte le stagioni Paulinho da Costa.

Dopodiché è ampio l’uso dell’orchestra, a sottolineare il mood serio e compassato del progetto, ma è comunque la personalità della titolare a dominare: musica adulta, diciamo pure anziana, rarefatta ma emozionante, stanca ma ispirata. E’ roba proveniente da sessantenni, certo non per i giovani… difficile accostarsi a tali atmosfere e testi se si hanno vent’anni ma siamo a quaranta dal suo esordio discografico e non c’è nulla di più logico che fare a meno di animosità, esuberanza ed innocenza quando si hanno tante primavere, ricordi, acciacchi di scomposta gioventù (e pure maturità…)  sul groppone. E’ proprio giusto anzi… più giusto di quell’ anacronistica pretesa di urlare sugli acuti come negli anni ottanta da parte del tizio degli Iron Maiden senza averne più i mezzi, per dire…

Il disco comincia con uno strumentale jazz orchestrale e poi s’inoltra nelle malinconiche, talvolta amare riflessioni di Joni sul mondo a rovescio che ci circonda, colle sue guerre le sue religioni ipocrite i suoi mass media pilotati e i suoi gadget spegni cervello (la lunga canzone che intitola il lavoro è la più indicativa, efficace e conturbante a riguardo). Anche lei, come tanti, vive evidentemente la parte attuale e conclusiva della sua vita con profonda delusione e rammarico rispetto a quanto socialmente sperato in epoche assai più stuzzicanti e idealistiche di questa.

Bellissimo coperchio per la pregevole scatola di suoni che Joni Mitchell ha messo negli anni a disposizione degli appassionati di buona musica, quest’album notturno e sfiatato, superbamente concepito e prodotto con quel che resta della sua classe, non sfigura rispetto a nessun’altra delle più meritorie opere disseminate da lei nel tempo.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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Paolo Nuzzi (ha votato 8 questo disco) alle 9:59 del 16 settembre 2015 ha scritto:

Ottimo commiato, comprato appena uscì mi colpì proprio per questo: la sensazione di aver detto tutto, di accettare i propri limiti umani ed artistici e chiudere il cerchio dopo quarant'anni di onorata carriera. Menzione speciale per la messa in musica della bellissima poesia di Kipling, "If". Ottimo Pier Paolo.