Kaki King
Dreaming Of Revenge
Quando il cuore, transvolando una sei corde, oltrepassa il virtuosismo.
A ventinove anni, Katherine Elizabeth King (in arte Kaki) potrebbe essere già unartista arrivata. Un palmares da urlo, se corrisposto alla sua, relativamente giovane, età anagrafica. Primo disco, Everybody Loves You, arrivato nel 2003 a seguito di una lunga gavetta, poi collaborazioni a raffica con personaggi del carisma di Marianne Faithfull, Foo Fighters e David Byrne. Un particolarissimo modo di approcciarsi col suo strumento, fatto di slap, tapping, risonanze, complesse e perduranti pizzicate in fingerpicking, spesso eseguito anche a due mani, che lha di fatto resa una delle migliori chitarriste del Nuovo Millennio (e basta andare ad un suo concerto, o in mancanza visionare i vari filmati in giro per la rete, per accorgersi di quanto questa sentenza si avvicini al vero). Musica quasi del tutto strumentale, non così ostica come si potrebbe pensare ma, forse, un po autocompiaciuta: non abbastanza, almeno, per far sì che la critica possa dispiegare fasci di rose nei suoi confronti.
Tutti motivi, questi, sufficienti a decretare una certa qual rilassatezza artistica, una posizione comoda e priva di rischi, un copione che non sembra aver bisogno di essere riscritto. E invece Kaki no, non vuole mollare la cinghia proprio sul più bello. E sceglie di cambiare.
Ecco perché questo Dreaming Of Revenge, uscito a marzo del 2008, è semplicemente un bel disco, aldilà della tecnica strumentale, aldilà del gusto personale, aldilà di ogni altra piccola questione. Sì, Kaki pare aver deciso, a ragione, che fossilizzarsi nel canone della musicista-incredibilmente-abile-e-basta sarebbe potuto diventare un peso, unetichetta da cui non potersi più scrollare nel corso degli anni, un paraocchi che avrebbe di fatto anteposto ogni evoluzione chitarristica ad una, anche minima, crescita artistica, nel songwriting o nella stessa composizione. E così le regole del gioco si trasformano. Non più brani intensi concentrati solo sullo sviluppo della sei corde, non più esibizioni, seppur relativamente oneste, della propria bravura. La chitarra non è più così in primo piano come lo era stata in passato. Cè un altro elemento concorrenziale, ora: la stessa voce della King, comparsa già sporadicamente nel precedente Until We Felt Red del 2006, che in queste trame emerge con più decisione e disegna una figura da folksinger, se non da cantautrice vera e propria.
Certo, innovarsi non significa dimenticare le proprie origini, ed infatti lapertura è affidata ai nervosi arpeggiati di Bone Chaos In The Castle, scarna ed algida strumentale che farà impazzire chi già era avvezzo alle volèe della signorina King. Tutto il resto, però, si distacca con decisione dallintro: che siano le brezze folk à la Nina Nastasia della successiva Life Being What It Is o il rock più ritmato del singolo Pull Me Out Alive, dal retrogusto lo-fi, uno dei pezzi migliori del lotto, non così lontano da alcuni episodi di PJ Harvey (quella più introspettiva, of course).
Il resto, poi, presenta delle impennate certo da non sottovalutare: Montreal riesce a concentrare, in appena quattro minuti e mezzo, una visionarietà ed una ricchezza cromatica degne delle migliori immersioni psichedeliche databili fine anni 60, con divagazioni chitarristiche di considerevole spessore: Open Mouth, anchessa strumentale, riesce ad andare oltre, con contrappunti di violini che si flettono ad una gentilizia raramente sentita nellimmediato presente; Air And Kilometres chiude infine il trittico con una varietà stilistica davvero impressionante.
È chiaro che, in ogni caso, linevitabile scotto che Kaki paga per aver così bruscamente invertito il suo cambio di rotta è quello di manifestare ancora una qualità compositiva un po zoppicante. E, di conseguenza, il creare classici pezzi riempitivo che, seppur gradevoli, sovente sono costruiti sulla falsariga di altri ben più solidi (Saving Days In A Frozen Head e Can Anyone Who Has Heard This Music Really Be A Bad Person? su tutte). Il miglioramento però si sente, ed è altresì evidentissimo, nella conclusiva 2 OClock, bellissima ballata agrodolce per malinconie vocali costellata dalle classiche pennate (da brividi la progressione che parte ai 3:20), che unisce il vecchio al nuovo e forgia, di fatto, il pezzo migliore del disco.
Che la vendetta sia con voi.
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