R Recensione

5/10

Kozminski

Kozminski

I Kozminski si presentano come una giovane band milanese che suona folk-rock psichedelico. Direte voi: e cos’ altro dovrebbe suonare un gruppo giovane a Milano, in quella vasca di cemento uniforme (senza offesa, sono legato a quella città, ma soffro la sua architettura), se non qualcosa di psichedelico? Giusto. Io, per esempio, durante gli anni dell’università nel capoluogo lombardo, avevo fatto della tromba psichedelica uno dei miei strumenti preferiti. Ma questa è una storia diversa. L’ironia però non è completamente fuori luogo, dacché in questo breve lavoro dei quattro Kozminski se ne può riscontrare, anche se garbatamente celata dietro un velo di colta leggerezza, in dosi piccole ma evidenti: dal disegno della gogna collettiva al brano Il Sole Delle Otto, che non può non strappare un sorriso. Ma andiamo con ordine.

Kozminski, esordio del gruppo dopo tre anni di attività, è un lavoro che per lunghezza e numero di brani si avvicina maggiormente alla dimensione dell’EP che a quella del full-lenght: sette episodi, per mezz’ora scarsa di musica, che si presentano con la delicatezza e la trasparenza del racconto per immagini. Sono ritratti di realtà quotidiane, più o meno surreali, dipinti con leggera, non sempre efficace, poesia cantautoriale. La narrazione cola dentro una materia musicale che sì, senza voler essere troppo ostica per nessuno, rientra nei territori del folk-rock psichedelico. O almeno, folk e rock sicuramente.  La psichedelia si palesa invece in un’accezione sostanzialmente decorativa, dal chiaro indirizzo temporale: un filtro, prelevato direttamente dall’epoca in cui essa iniziava i suoi lascivi flirt con l’hard rock nascente, attraverso cui il sound Kozminski acquista una personalità sufficientemente peculiare per essere riconosciuta, ma ancora lontana dal risultare inconfondibile. Non c’è qualcosa di nuovo o di unico qui dentro, tutt’altro, ma la componente sonora, strumentale, esce comunque piuttosto definita e ben risolta. Un suono che prende le mosse dai territori nebbiosi  degli anni settanta, ammiccando ai Pink Floyd più agresti, e lo trasporta ai nostri giorni con un’intenzione che ricorda l’approccio nostalgico dei Black Mountain. Proprio a loro (e alle saturazioni dei primi Kasabian) ho pensato sul finale di Matera (O Le Sue Paure) quando la voce esce dalla propria compostezza e, onorando le metaforfosi  kafkiane, diventa un urlo pre-umano che si sgretola nel tappeto delle distorsioni.

Peccato che espressioni così audaci non si ripetano più nel corso dell’album. Ed anzi, a dirla tutta, peccato che la sostanza vocale riveli, al di là dei testi invece piuttosto convincenti, un’identità molto più incerta di quella strumentale. Si passa dalla melodia di Matera (O Le Sue Paure), non troppo personale e comunque debole se non nella chiusura del ritornello, a forme e stili che trovano riferimenti nei più disparati ambiti del cantautorato italiano. Purtroppo, non soltanto nei nomi che avrei sperato di poter citare (Conte, Timoria, qualche esuberanza della Bandabardò). In questo senso mal si digeriscono pezzi come Così, Milano o Estate, in cui un cantato frammentario ed enfatico risulta alla fine un po’ forzato, stucchevole nella continua sensazione di déjà-vu, di già sentito, che costringe a provare fin dai primi ascolti. Del fatto poi che alla mente vengano le immagini di innominabili pseudo-ribelli della popular nostrana è meglio non parlare. Il discorso non vale per le vocalità di Lettera Dall’Etna, il brano che, nella sua fine essenzialità, nasconde a mio parere il vero potenziale del gruppo, e di Il Sole Delle Otto, già citato in apertura, che pur non brillando per melodia riesce comunque ad essere accattivante e godibilissimo. Il particolare timbro, fragile ma avvolgente, della voce in questi due brani, unito all’amabile imperfezione di una erre moscia“gucciniana”, risulta davvero comunicativo, per non dire seducente.

Sui limiti esposti c’è da dire, comunque, che anche l’autoproduzione gioca spesso un ruolo fondamentale nei fallimenti dei matrimoni voce/musica, ed in questo senso una miglior produzione avrebbe potuto ridurre il senso di inadeguatezza.

Un plauso va invece agli strumenti: alla chitarra elettrica in primo luogo, che spesso trova le forme più adatte ad innalzare il livello generale, fra arpeggi dissonanti, ma comunque accomodanti nella loro risultanza melodica, e contrappunti minimali che pur spesso diventano i protagonisti dell’arrangiamento. Buono anche il lavoro della sezione ritmica, in grado di sostenere e portare gli sviluppi armonici con una certa, duttile efficacia, ed il livello compositivo in generale, che regala bei momenti nelle aperture di Così (spadroneggia un hammond doorsiano), nel finale liquido di Lettera dall’Etna, nei cromatismi canadian-oriented che caratterizzano la parte centrale di Il Cane, nelle passeggiate a braccetto che chitarra e pianoforte si concedono in Milano.

Prodotto acerbo, dunque, com’è normale che sia per un esordio autoprodotto. Non manca il talento, ma una decisa messa a fuoco sì. Di soddisfazioni i Kozminski se ne stanno comunque prendendo (ultima la vittoria al Roadie Rock Festival di Casina 2009): attendiamo con fiducia che ne diano di maggiori anche a noi ascoltatori.

MySpace: http://www.myspace.com/ikozminski

Facebook: http://www.facebook.com/pages/Kozminski/45877618483

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.