Monsters Of Folk
Monsters Of Folk
‘Monstrum’ in latino indica qualcosa di prodigioso che nasce dal missaggio di singoli elementi. Era nell’aria da tempo che questi quattro bravi ma non mostruosi cantautori innamorati delle radici americane avessero deciso di pubblicare un disco assieme, dopo collaborazioni reciproche molto intense da almeno un lustro a questa parte. Conor Oberst (già Bright Eyes, in alto a sinistra), Jim James (già My Morning Jacket e Yim Yames, in alto a destra), Mike Mogis (Bright Eyes pure lui, in basso a destra) e Matt Ward (o M Ward, in basso a sinistra) hanno fatto finalmente (super)gruppo, suonando e producendo tutto da sé, scambiandosi gli strumenti e dilettandosi in nuovi ruoli, nella dichiarata volontà di trascendere le rispettive personalità e di suonare come qualcosa di diverso; di mostruoso, appunto, per quanto non semplicemente folk.
Nelle quindici canzoni di “Monsters Of Folk” c’è infatti dell’altro, come già nelle carriere passate dei singoli singer-songwriters. C’è persino, in apertura, uno spiazzante momento tra R&B e pop nero, “Dear God (Sincerely M.O.F.)”, totalmente depistante, ma non da buttare. C’è, soprattutto, la vena roots più autentica, da Johnny Cash a Bob Dylan, dal country al rock '70, aggiornata all’oggi con una propensione leggera e vagamente adulterina che può parere a tratti tradimento e bestemmia, se non fosse che i quattro hanno talento a sufficienza per non impantanarsi nel citazionismo stretto. Il risultato dell’imbastardimento, quindi, pur non essendo glorioso, è gradevole, e dimostra, dietro una sorta di motto ‘tutti per uno, uno per tutti’, come fare (super)gruppo possa contribuire a superare le impasse che alcuni tra i sopraccitati avevano dimostrato nei lavori più recenti.
La coralità del disco non sempre prende corpo a livello vocale: i pezzi nei quali i tre (Mogis, com’è sua abitudine, lavora di strumenti e produzione) si alternano al microfono sono pochi, e solo “Baby Boomer” appare davvero riuscito nel suo intreccio canoro vorticoso tra il croon rasposo di Ward, la querulità scazzata di Oberst e il contralto vivace di James. Ubriacante (ordinaria, invece, “Say Please”). Quattro pezzi sono lasciati per intero all’interpretazione di Oberst, e si tratta di evidenti residui della sua ultima maniera filo-messicana accanto alla Mystic Valley Band: anodina “Temazcal”, coinvolgente il folk-rock desertico di “Man Named Truth”, evocative (nello stile escapista un po’ marpione tutto oberstiano) le partiture melodiche di “Ahead Of The Curve” e “Map Of The World”.
È M Ward, per il resto (il più in forma?), a lasciare il segno vocale sulle canzoni più felici, dalla flessione circense di Cash in “Whole Lotta Losin’” alla train-ballad “Sandman, The Brakeman And Me”, memore delle soffusità sognanti di Tim Hardin, mentre James brilla nelle cavalcature country con steel guitar (“The Right Place”) piuttosto che dove rallenta i ritmi (“His Master’s Voice”). Il mostro finale può funzionare, credo, oltre che come simbolico punto di ritrovo del folk rock americano contemporaneo e suo interessante referto ‘in tempo reale’, come momento di svolta per le carriere degli artisti coinvolti: collaborando si impara. E di cose da dire ce ne sono ancora molte.
Sito ufficiale: monstersoffolk.com/
Myspace: www.myspace.com/monstersoffolk
Tweet