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R Recensione

9/10

Neil Young

Live At The Cellar Door

“As the days fly past will we lose our grasp or fuse in the sun?”

La pluriennale lotta di Neil Young contro la ruggine e lo scorrere inesorabile del tempo si arricchisce di un nuovo capitolo: ecco la pubblicazione dell’ennesimo live estratto dagli Archivi, la monumentale opera tesa a canonizzare, cesello dopo cesello, il suo lascito artistico.  “Live at the Cellar Door” si inserisce nel solco dei vari “Live at Fillmore East”, “Live at Massey Hall”,” Live at Canterbury” degli scorsi anni, tutti tesi a mostrare Young nel periodo della sua irresistibile ascesa, culminata con “Harvest” nel 1972. Lavori imperdibili per ogni rustie che si rispetti, anche se probabilmente il miglior frutto del cesto è stato “A Treasure”, risalente  alla sbornia di puro country-rock del reaganiano e bistrattato “Old Ways” di metà anni 80 con gli International Harvesters: album che ha messo in luce una delle pagine meno celebrate dell’epopea youngiana, regalando oltretutto alcuni degli inediti più pregiati della vendemmia archivi (la ballata “Amber Jean” e la ruggente “Grey Riders” su tutti).  Non passerà inoltre inosservato che il titolo di quest’ultima fatica è anche un velato omaggio al mai abbastanza rimpianto Danny Whitten, al quale era dedicata "The Needle And The Damage Done", la più dolente delle elegie youngiane, con il celeberrimo incipit  I caught you knockin’ at my cellar door.

Registrato in un piccolo locale di Washington nel 1970, “Live at the Cellar Door” mostra Nello nella sua dimensione di inarrivabile cantore della solitudine, alternandosi tra chitarra acustica e piano. Impressionante la sfilza di classici, tra cui la primordiale versione di “Old Man” e una rarissima e felpata esecuzione di “Cinnamon Girl” al piano, mentre l’innocente nudità di “Tell Me Why”, “Birds” e “Only Love Can Break Your Heart” e le apocalittiche visioni di “After The Gold Rush” e “Don’t Let it Bring You Down”  ( it’s only castles burning...) tracciano ancora un solco profondo nell’anima.

Gli apici del disco sono però quelli risalenti alla saga westcoastiana coi Buffalo Springfield, rese solo con voce e piano.  Pur priva del celeberrimo arrangiamento psych-baroque di Jack Nitzsche,  “Expecting To Fly” si conferma in assoluto uno dei brani più significativi degli anni Sessanta, non a caso immortalato anche in un passaggio chiave di “Paura e delirio a Las Vegas”, forse il film rock and roll per eccellenza degli ultimi 20 anni.  Splendida anche “Flying On The Ground Is Wrong”, ai tempi dei Buffalo cantata da Richie Furay e di cui Young si era già ripreso la paternità nel citato “A Treasure”:  introdotta da un divertente monologo in cui il Canadese ne spiega la genesi, l’andamento svagato e rapsodico di questa versione rende ulteriore giustizia a un pezzo paradigmatico per la dolcezza con cui le tipiche nevrosi youngiane si insinuano nell’utopico canovaccio flower power.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 4 voti.
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