R Recensione

7/10

Peckinpah

That's All Bad Folk

Peckinpah in ralenti: cavalli rotolano su loro stessi, ponti fatti saltare con la dinamite, cowboy cadono dai cornicioni. Nella convulsione dell’azione subentra la calma, la tensione si scioglie: i quindici minuti finali de ‘Il Mucchio Selvaggio’ sono tutti così”, recitava Emidio Clementi, voce dei Massimo Volume, durante un concerto degli Afterhours. E questo album sembra proprio riportare quella calma, dilatando quei quindici minuti del film in trenta minuti di ottimo e originale folk. Il Peckinpah che qui prende il nome dal grande regista americano è in realtà Lorenzo Bettazzi, ex bassista fiorentino al suo secondo lavoro alla chitarra acustica.

A guardare la copertina - o meglio, l’intera confezione -, i titoli dei brani e anche ad ascoltare il primo di essi, “Summer” (una sorta di intro), ci sembra che la strada che il nostro Peckinpah voglia percorrere sia la stessa del grande regista: tutto ci appare sporco, polveroso, essenziale e consunto, anche la stessa voce che canta sembra quella di un vecchio bluesman degli anni ’30. E ciò che ci aspettiamo dal resto dell’album è qualcosa che si avvicini molto al folk di Micah P. Hinson e a quello di Devendra Banhart. Eppure è già dal secondo brano che questa aspettativa sembra incrinarsi: “Elle” è infatti un grido d’amore (“once you gave me your tears / now they still drop in my dreams / something too precious to hide / I won’t let them dry”) strappato a una voce che potrebbe essere quella dei primi Emerson Lake & Palmer, quelli di “Lucky man” per intenderci, e la sua chiusura è uno splendido intenso arpeggio di chitarra accompagnato dal lieve suono di uno xilofono che ne detta la melodia.

Anche la seguente “In the meantime” è una ballata folk, e anche in essa la voce, arricchita da un’altra che la rafforza raddoppiandola, ricorda le ballate folk-rock degli anni’70, come quelle dei Traffic di “John Barleycorn must die”. Ancora in “None of them” e in “Drunken lover” ci sembra di essere stati trasportati in uno scenario western nel quale però si creano armonie che riescono a spezzarne la ruvidezza e la cinica brutalità, immergendoci nell’aspetto più nascosto di esso, il romanticismo. Ma è con “The seed” che l’idea di un album acustico dai forti accenti folk cade definitvamente: un giro pesante di basso costruisce il tempo del brano facendosi sostenere da una batteria secca che ricorda lo stile dei White Stripes, e anche la voce cambia, si fa più disillusa, quasi insolente, riportando alla mente quella del grande Ian Anderson. Da qui alla fine dell’album la musica si arricchisce di effetti, la voce si abbandona a distorsioni, le chitarre si elettrificano e s’inaspriscono, eppure il tono resta sempre pacato, romantico, come nell’ultima, splendida “Grinder”, dove la voce echeggia e si divide sulle note di un pianoforte.

Il silenzio che scende dopo l’ultimo brano di questo album ci da il senso di tutta la differenza che può passare tra questa opera e quella del Peckinpah regista: allo spettatore restano una manciata di disillusioni e nessuna speranza; a noi ascoltatori, invece, resta l’impressione di averle appena ricevute sottoforma di musica.

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