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R Recensione

7,5/10

Scott Matthews

Home Part 1

E' per me un grande onore poter parlare - ancora - di Scott Matthews, autore al quale sono intimamente legato da quel non troppo lontano 2011 in cui "What the night delivers" ha stregato irrimediabilmente ogni fibra del mio essere. Ricevuta la notizia che fosse in uscita il suo nuovo lavoro, il quarto non contando un album live, "Home part 1", e il primo quindi, probabilmente, di un dittico, non ho potuto pensare ad altro. Chi è Scott? Non è di certo la sua carriera a dirlo: autore professionalmente giovane, ha collezionato nella sua breve iniziazione insuccessi e successi. Annovera già una collaborazione ormai scemata con nientedimeno che Robert Plant e un quasi totale rifiuto da parte di critici e non del suo Elsewhere. Ma si capisce il perché. Quello che ha tentato di fare Matthews è stato raccogliere l'immenso retaggio del rock - folk e non folk che sia - marcato 70s (ricordiamoci ancora di Plant) e di farlo evolvere tramite una metamorfosi più originale, che coinvolgesse autori più contemporanei, orchestrazione ricche, tanto elettriche quanto acustiche, che fossero il riflesso di un mood sconsolato, malinconico e di una filosofia immancabilmente piovosa, autunnale, decadente, senza colore: la chitarra ad arpeggi delicati e circolari, l'intervento mai violento del synth e degli archi, e poi la voce, colonna assolutamente portante, calda ma virtuosa, che tanto per i suoi toni che per il suo lirismo è stata - e qui sta la sfortuna di Matthews - fin troppo paragonata a quella di Jeff Buckley. Non ci era riuscito. Poi però è arrivato "What the night delivers" e tutto è cambiato. E' stato un vero miracolo. Senza tradire i suoi intenti notturni, anzi amplificandoli al massimo, Scott ha raccolto ogni intenzione rimasta lì a schiudersi, a covare, e le ha addensate in un vero fuoco di Sant'Elmo poetico, equilibratissimo, lirico, armonico, ossessionato, intimo, flessibile e intenso quanto mai. Da qui in poi è chiaro: Scott ha un dono.

Capire quindi cosa sia questo "Home part 1" è cosa non molto facile per chi ha ormai assodato che quando si parla di Scott Matthews si parla di un autore a tutto tondo e quando si comprende che un confronto con il gigante ormai passato è immancabile. Uno sguardo infantile, prima di ogni cosa, all'estetica: Elsewhere, un anonima sagoma che si avvia verso la tempesta, di gusto romantico, "What the night delivers", l'autore avvolto in un manto di tenebre, di intimità più che crepuscolare, e poi Home, dal gesto radicalmente opposto, in cui Scott primeggia e accenna persino un sorriso. Sembra proprio una dichiarazione d'intenti: siamo di fronte ad un album di maturazione, non c'è dubbio. Ci si aspetta che l'eredità di Myself againWalking home in the rain sia ancora limpidamente accettata, ma che si assuma una piega diversa, che si arrivi al traguardo successivo, dove l'introspezione ossessiva (Obsession never sleeps, d'altra parte) sia ormai superata, e che quel magnifico ma mesto segmento di passato sia ormai da lasciare alle spalle. Scott ha preso atto ed è andato oltre, ha ormai abbandonato i bassifondi del pensiero, le loquaci tenebre della solitudine di Echoes of the lonely, gli allampanati contorni di un inabissamento su fondali dove non esiste la dialettica della risoluzione, ma solo quella del passaggio, della lucida assenza, della perdita e, probabilmente, della contraddizione. Lo sforzo, per chi come me ha tentato di sperimentare il lento e scheletrico procedere di Ballerina lake, è veramente non da poco. Ma Scott sembra esserci riuscito e, per quanto segnato, sembra essere tornato a respirare. Che cosa ha trovato Scott Matthews? Ha trovato una consapevolezza maggiore, ha assorbito e sperimentato il vuoto e adesso vive una libertà con pochi confini, sia dal punto di vista strumentale (Home si dichiara folk alla Scott Matthews way come mai avrebbe potuto il lavoro precedente) che personale. Non siamo più, insomma, a caccia di fantasmi. Come ce l'ha fatta?

Ce lo dice immediatamente Virginia, che suona fin da subito come una luce lontana, apparsa inaspettatamente, dolcissima e delicata, che ha il completo aspetto della redenzione o, perlomeno, della consapevolezza. Scott la guarda a lungo, ma d'altra parte di vasta lunghezza sono tutti i lirismi di questo "Home". E il percorso continua con una narrazione precisissima già con i toni palesi di The outsider, un dialogo, niente di meno di un dialogo, completo, risolutorio, una preghiera splendidamente folk (dove troneggia l'armonica, strumento che mai Scott avrebbe potuto utilizzare in una The man who had everything - non ce n'era il tempo e, sopratutto, non c'era quella spontaneità vivace, quel senso di comprensione e di fuoriuscita). Sunlight, la grande Sunlight, brano portante di tutto l'album probabilmente, dotata di una forza completamente inaspettata, che fa sbarrare gli occhi, vibrare la pelle, una forza che mai ci si sarebbe aspettati dall'autore di Head first into Paradise. Scott si solleva, si innalza, vola, grida, squarcia e finalmente dichiara la sua innocenza di fronte al tribunale della ragione. Un riposo meditabondo, con la strumentale - e per questo vaga e rara - The clearing e, sullo stesso tono, ma più decisa, la successiva The city and the lie, che è un leggero viaggio, un viaggio verso la notte (The night is young), finalmente giunta dopo il risveglio che tutto questo nuovo "Home" rappresenta, un risveglio che ha tutte le sembianze di un mattino idilliaco e altamente simbolico. Ma non si tratta della solita notte, quella che Matthews viveva "...in the room, in the dark", si tratta di una notte viva, vivida, scorrevole, attiva, accogliente, tenace. E poi cosa? E poi l'ascesa. 86 Floors from Heaven consiste in un guardare in alto, verso l'ultima delle mete, in una zona eterea, diafana, dove si dialoga con gli angeli (Dear angel). Tutto sembra aver assunto sembianze quasi oniriche, e di questo ci parla Mona tramite la negazione del sogno, un ritorno alla realtà. Ci si avvia infine verso la fine, un messaggio lasciato perché qualcuno lo legga, con i tratti di un addio, in Running wild, per poi lasciare un segno di quello che ancora dovrà accadere (Let's get you home), un pronostico o, perlomeno, una speranza. 

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C Commenti

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Dirty Frank alle 16:53 del 16 aprile 2014 ha scritto:

E' incredibile come questo ragazzo sia puntualmente ignorato dalla critica. Eppure il suo esordio, che non è "Elsewhere" attenzione, ma il bellissmo "Passing Stranger" (2007), aveva tutte le carte in regola per essere annoverato tra i migliori dischi del periodo. Matthews ha poi fatto un percorso un po' in ombra lasciando le sue splendide canzoni ad un culto per pochi.

Un autore davvero ispirato dotato di una voce straordinaria. Merita di essere (ri)scoperto a partire da questo nuovo lavoro.