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R Recensione

7/10

The Zen Circus

Nati Per Subire

Penso alla mia città, Padova. Alle trasformazioni e ai peggioramenti che sta subendo con il passare del tempo. All’emarginazione progressiva di una sempre maggiore fascia di giovani che, costretti a rinunciare, volenti o nolenti, alla movimentata vita del centro, si stanno ammucchiando ai bordi di una vuota periferia, anch’essa non troppo tollerante nei loro confronti. Ai negozi tipici, alle professioni storiche che vengono divorate dagli affitti, dal peso del lavoro che manca, dalle grandi distribuzioni. Alla gente, sì, alla gente che c’era e che non c’è più, che era l’ossatura della quotidianità e ha deciso di mollare lo scheletro. Padova, con la sua cultura, i suoi angoli, i suoi incontri, i suoi problemi, mi piace, mi piace molto. Tuttavia, cronenberghianamente parlando, come due fidanzati di lunga data che una volta lasciatisi non trovano possibile essere semplicemente amici (cit.), col passare del tempo sta crescendo dentro di me a guisa di corpo estraneo, di peso morto. Potevo rimanere indifferente ai tizzoni scagliati dal caustico folk di “Atto Secondo”, il Pan Del Diavolo spiaggiato a Campo dei Miracoli, quando si dice “Portami via da questa città che era mia / ora è degli idioti. Che democrazia”?.

No, no di certo. Non è sicuramente la prima, né l’unica cosa che salta all’occhio nello scorrere le parole e le musiche di “Nati Per Subire”, sesto disco ufficiale del trio pisano Zen Circus, a distanza di due anni dal precedente “Andate Tutti Affanculo” che li aveva finalmente imposti come new sensation all’interno del circuito a tenuta stagna dell’indie italiano (esiste davvero?). I nati per subire, fin troppo facile intuirlo, siamo noi, loro, voi che leggete quest’articolo o non lo leggerete mai, tutti quelli che vivono il presente ma dovranno presto appellarsi e rifugiarsi nel passato, perché il futuro sta venendo archiviato nel cassettone delle cose inutili, delle cianfrusaglie superflue. Nati per subire, e per subire in maniera reale, tangibile, paradossale ma non fantozziana. È forse questo senso di assurdità sottesa alla realtà quotidiana a trasformare lo sconcerto astratto in uno spillone nella carne, che fa dimenticare qualsiasi possibile slogan aldilà della constatazione, nuda e cruda: la democrazia – questa democrazia – semplicemente non funziona. Momento coincidenza, oppure bando al caso, trovare nella scaletta una canzone con lo stesso titolo, costruita sul modello della torch song, con Giorgio Canali che slabbra e martoria la pentatonica sbilenca di sempre.

Appare approssimativo nei toni e negli intenti il disco, almeno ad un primo ascolto. Provocatoriamente, sono gli stessi Circus a promuoversi in un ruolo di primo piano nella sparatoria generale, utilizzando atmosfere da slacker di metà anni ’90, riff baustelliani e parole pesanti come il piombo: “Non chiamarci comunisti / Perché non ce n’è più bisogno / Piuttosto siamo qualunquisti / Gente come te”, cantano ne “I Qualunquisti”, che per aspetto e consistenza sembra quasi una outtake da “Amen”. Lo stesso deja senti fa nuovamente capolino nell’iniziale “Nel Paese Che Sembra Una Scarpa”, indie rock con immaginario da Bianconi e splendido arrangiamento spaghetti-western di Enrico Gabrielli. Bisogna scavare con un po’ di pazienza nel tessuto connettivo per portare alla luce pepite di maggior valore qualitativo. “Franco” sembra un sottile racconto metropolitano su cui traccheggiano sottili stilettate funk: l’ingresso, nel ritornello, della seconda, inconfondibile voce di Alessandro Fiori dei Mariposa, trascina l’intero brano nella polvere dell’amarezza. “L’Amorale” spinge il petto in fuori, trascinata da un martello acustico con apertura bivalve in un’elettricità figlia di Black Francis & Co.: il già forte “La storia ce lo insegna / che se Dio esiste è un coglione” della vecchia “Gente Di Merda” qui diventa direttamente, con un gap nullistico, “Dio non esiste, lasciatelo dire”. Sopra tutto è da ricordare, per la particolarità con cui viene costruita, “Il Mattino Ha L’Oro In Bocca”, storia di ennesimi fallimenti personali che corre su un lieve crescendo strumentale, con elaborata chiosa di archi a cura di Nicola Manzan.

La storia dei nati per subire, prima o poi, sarà destinata a concludersi: tra i gorghi di una piazza, nelle stanze del potere, nelle scartoffie obliate. Ma se il dove sembra poter includere ancora una scelta multipla, il come si sta drammaticamente indirizzando verso una soluzione radicale. Il violino di Manzan, nella postfazione fantasma di “Cattivo Pagatore”, tratteggia un bozzetto di geniale semplicità e grande emotività: una trina classicheggiante che s’interrompe bruscamente, a forza, non di propria spontanea volontà, bensì sovrastata da un improvviso eco. Un colpo d’arma da fuoco. Speriamo proprio di non star commentando un epilogo già scritto.

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C Commenti

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Alfredo Cota alle 19:42 del 8 novembre 2011 ha scritto:

L'album non l'ho ancora ascoltato, ma i miei complimenti per la recensione, di grande equilibrio ed effetto, in tempi in cui, quando si affrontano siffatti argomenti, si tende spesso a cadere nella vacua magniloquenza e nella pomposa retorica

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 20:26 del 8 novembre 2011 ha scritto:

prime impressioni davvero buone. a bersaglio pieno questo modo di affrontare a viso aperto temi sociali e i soliti 'tabù italici' (li indicavo nei commenti al disco precedente: lì, meno a fuoco), come in preda ad una sovra lucidità - incontrollata - di senso critico/civico. in più, in "nati per subire" c'è un'angoscia esistenziale parecchio diffusa (che sia nel giocoso surf-rock di "i milanesi al mare" o nella cinica "nati per subire"), ancorata ad una forma canzone ancor più compatta ed efficace (determinante, in termini qualitativi). commento solo un pezzo, intanto: "il paese che sembra una scarpa". per me, quanto di meglio si potesse sperare dagli zen: intro pseudo western fulminante (gabrielli, ma va????), testo graffiante e sconsolato - con quella rassegnazione che sembra debba esplodere da un momento all'altro -; e poi la coda: dissonante, à la graham coxon, davvero grande spolvero. ottima rece Marco: ripasso per voto e commento!

Marco_Biasio, autore, alle 20:35 del 8 novembre 2011 ha scritto:

Ringrazio molto Alfredo e Mauro per i complimenti.

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 16:02 del 3 dicembre 2011 ha scritto:

col dito al cielo urli tutta la tua rabbia, ma non ti accorgi che hai la testa nella sabbia. abbiamo tutti un ego da difendere: Giorgio lo dice sempre, fatti fottere!

confermo tutto: in assoluto il loro disco più lucido e ispirato!

REBBY alle 9:30 del 4 aprile 2012 ha scritto:

Ironici e sarcastici, i tre toscanacci realizzano un mix tra il rock pre e post punk di tradizione anglosassone e la canzone d'autore italiana. A me ispirano simpatia immediata, pur non entrando tanto nelle mie grazie per quanto riguarda l'aspetto prettamente musicale (vocale soprattutto), specie sull'ascolto filato dell'album. Credo comunque che sia tra i migliori dischi italici dell'anno appena passato. Nel paese che sembra una scarpa la mia preferita.

Andrea tweedy (ha votato 9,5 questo disco) alle 15:37 del 18 marzo 2017 ha scritto:

Il capolavoro del gruppo pisano insieme all' ultimo "la terza guerra mondiale"