Timber Timbre
Creep On Creepin' On
Partiti diversi anni fa da un folk scarno e a bassa fedeltà, i canadesi Mika Posen, Simon Trottier e Taylor Kirk sono giunti ad una nuova formula, per certi versi stupefacente. Già dal loro ultimo lavoro (Timber Timbre, 2009) si iniziava a manifestare un mutamento del sound, segnalato innanzitutto da un titolo che, nella sua omonimia, pareva porsi fuori da ogni continuità con quanto fatto prima. Una sorta di: “salve a tutti, ci ripresentiamo, siamo i Timber Timbre”. I suoni più rifiniti, una maggiore attenzione nella composizione e negli arrangiamenti, un maggiore distacco dall'ostinato purismo dei primi passi, la comparsa di nuovi elementi e di un'avvolgente atmosfera noir: tutti segni di una metamorfosi oltremodo promettente.
Creep On Creepin' On prosegue dunque su questa nuova linea stilistica, calcando i passi su un folk-pop da camera capace di ondeggiare tra cupi blues e brani da cabaret dell'orrore.
Prendiamo, per farci un'idea, la bellissima Black Water, sospinta da una linea d'organetto e subito dominata dal canto avvolgente di Kirk, mentre un pianoforte saltella tratteggiando un incavo melodico dove far scorrere il brano. Tutto questo fino all'apertura a tutto campo del ritornello, dove si mischiano classicismo da camera e sensibilità rurale (“all I need is some sunshine”), in un gioco armonico semplice ma maledettamente efficace (il sassofono di Colin Stetson che gracchia infilandosi nelle fessure è solo uno dei numerosi colpi da maestro). Su tutto spicca la curiosa dedizione che Taylor Kirk presta al suo crooning duttile e a tinte fosche, ripiegato in se stesso, austero e nello stesso tempo madido di sensualità (un Win Butler che imita Nick Cave). Fascinoso, in una parola, estremamente fascinoso. Bad Rituals si tinge di nero (esemplare quel sax strozzato e quei cori scuri e gravi) tenendo però fede ad un'anima bianca, tutta legata alle partiture di piano e ai conclusivi arrangiamenti d'archi tanto cari al pop made in Canada. La title-track gioca con la tradizione folk americana arricchendola di innesti jazz e soul, mentre Too Old to Die Young è una cavalcata di rock spettrale che ricorda da vicino, nel suo essere infestata di presenze spettrali, certi acts degli ultimi Erland & the Carnival. Woman rappresenta forse l'apoteosi di questa ricerca di un clima apocalittico, evidente nell'intro incombente e minacciosa, smorzata dal corpo disteso e apparentemente brioso del brano, turbato però inesorabilmente dal ritorno del tema introduttivo, dai sinistri guizzi di chitarra elettrica, da un sax impetuoso e ossessivo.
In definitiva si tratta di un album capace di ergere ponti fumosi tra tradizioni proprie alla cultura popolare americana, incroci tra anni '50, black music, vintagismo folk e ariosi rigonfiamenti chamber pop. Un lavoro che cammina lungo un preciso tracciato in cui ogni brano è collegato all'altro da intermezzi strumentali in pieno stile soundtrack music. Una sensibilità cinematografica, immaginifica, che riempie ogni suono di un fascino che scaturisce dalle mille immagini ad esso connesse. Un repertorio sconfinato rimaneggiato per essere alla portata di (quasi) tutti: forse questo, assieme ad una visione complessiva a tutto tondo, il merito maggiore di un album caldamente consigliato.
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