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R Recensione

5,5/10

Xavier Rudd

Spirit Bird

Lo sciabordio delle onde salmastre sulle lunghe e consunte tavole da surf produce un suono o, per meglio dire, un ritmo. Spezzato, ma costante, e ricorsivo. Essenziale, come può esserlo una manifestazione acustica della natura, dalla natura. Questo sottile frangersi comincia a riverberarsi, attraverso le fibre resinate, e ad espandersi, un poco alla volta, sino ad ingrossarsi, a sovrapporsi sulle proprie stesse frequenze, ad arabescare progressivamente la propria struttura iniziale. Xavier Rudd, attivista, songwriter, polistrumentista, sportivo amatoriale e chissà quante sfumature abbiamo tralasciato per strada, avrà avuto modo di ascoltare e riascoltare scansioni simili centinaia di volte, lui che dell’Australia dimenticata, sottomarina, culturale ed aborigena è il referente occidentale, europeizzato e, sotto certi aspetti, riverniciato di appeal popolar-fruibile. Sulla cadenza, e sulla sua eutrofizzazione insistita, spietata, centripeta se lo si desidera, Rudd aveva – un paio d’anni orsono – scritto un intero disco, il sesto, “Koonyum Sun”, legato visceralmente al ricettacolo di tradizioni terra e ai suoi istinti di fuoco ed aperto, in tale prospettiva, alla micro orchestra di percussioni africane Izintaba. Dalla “Mother” genitrice alla Nephelokokkygía australe. La sconfinata poesia dei grandangoli paesaggistici (archetipo di “breathtaking” anglofono) e le tinte sfumate della volta celeste e delle distese oceaniche formano l’ossatura, oggi, di “Spirit Bird”, nuovo lavoro che ritorna, per l’occasione, al brand solistico.

Chi ha avuto la fortuna di godersi un’esibizione live di Xavier Rudd conosce l’istrionismo del personaggio. Che scrive spesso, sì, canzoni semplici e scheletriche, riuscendo però ad accompagnarle personalmente dall’inizio alla fine, attorniato da una criniera di elementi strumentali di varia foggia e natura, quasi adusi a nasconderlo all’indiscreto ed avido occhio del pubblico pagante. Il suo posto è lì, dietro, timido costruttore di brani e demiurgo di una nuova (vecchia?) temporalità folk di cui non è bene sottolineare, con insistenza, la paternità. Così è anche per “Spirit Bird”, avviluppato per gran parte della sua esosa durata – oltre un’ora! – in progressioni strumentali che reiterano e accumulano, si desonorizzano e si armonizzano, si spogliano d’ogni orpello e si diversificano di colpo. Tutto e il contrario di tutto sfila in cima al gargantuesco scranno di Rudd, artista sempre eclettico, ma ora un po’ appannato nella realizzazione fattuale delle melodie (molto lontane dalla linearità bucolica del capolavoro “Food In A Belly”) e arrugginito nell’interscambiabilità di atmosfere e temi (distante, anche in questo caso, dall’inusitata oscurità latente di “Dark Shades Of Blue”). Prima di proiettarsi sopra i cirri, e contemplare da lassù il globo terracqueo, Rudd tiene a sperimentare nuove forme d’espressione ritmica, lateralmente prospicienti le infiltrazioni reggae che sempre hanno donato colori cangianti a molti suoi pezzi: il didgeridoo di “Lioness Eye” ruggisce, monocromo, su un dub multistrato, ispido e selvaggio, che ritorna – con risultati minori – nel j’accuse freak di “Culture Bleeding”, con ritornello di voci bianche, e nell’ennesima rivisitazione di “3 Roads”, annacquata in coda da striature elettroniche che ingigantiscono bassi e tagli percussionistici e rendono irriconoscibile l’originaria cantilena indigena.

Voce e chitarra, poi: si riparte dallo schizzo di americana abbozzata di “Comfortable In My Skin”, Ben Harper con un’armonica infilata di sghimbescio tra le labbra, passando poi per l’intimismo dolente della title-track (candida evoluzione di singole sezioni in fingerpicking per crescente ascesi corale), per l’espressiva nudità dell’inno ecologista di “Follow The Sun”, alias lo strepitoso Eddie Vedder di “Into The Wild” che Rudd non ha mai potuto e voluto essere, per le pelli ed i cristallofoni sordi di “Butterfly”, per lo slow folk rock di “Paper Thin” – con manciate di accordi ed una slide indolente che brucia lentamente sullo sfondo – ed il bottleneck di “Creating A Dream”, discinto manifesto di vita per torch song che sintetizza tutto il sintetizzabile. Sommariamente, un peccato. Niente che valga davvero la pena di ricordare, nessun guizzo particolarmente memorabile, una ferrea filosofia morale che non riserva appariscenti novità per chi ha già avuto modo di apprezzarla. Pochi i sussulti, riservati a singole e particolari folate in episodi old style: è il caso di “Bow Down”, che parte dimessa e raccolta in minore per sfociare in chorus roots per handclappin’ e distorta elettrica blues, e soprattutto per i dieci minuti di “Full Circle”, intensa esperienza sonora e testuale eretta su singoli, delicati arpeggi di chitarra che, alla maniera emozionale del conterraneo John Butler, crescono di complessità e veemenza assieme alla voce di Rudd, sino a sfociare in una cattedrale di delay, distorsioni per didgeridoo e riverberi sferraglianti.

Il talento di Xavier, sempre più mosca bianca in un panorama di “canzone” tristemente teso all’uniformità, non si mette adesso in discussione. Giusto e doveroso sottolineare, tuttavia, che in passato ci ha reso servigi decisamente migliori e dischi brillanti, vividi, da riscoprire pressantemente per la loro scomoda attualità, in un mondo deteriorato e sfiduciato. Per poterci trovare nell’Iperuranio, seguendo il sole, il volo degli uccelli e la direzione dell’amore.

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DMAKA 7,5/10

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freelaander1972 (ha votato 8 questo disco) alle 11:16 del 13 ottobre 2012 ha scritto:

Meno intenso dei precedenti album ma molto buono, conferma di nuovo il suo stile di suonare e interpretare la musica. Comunque è un'artista straordinario.