Red Hot Chili Peppers
By The Way
Mitici Peperoncini Rossi Piccanti…
Io sono cresciuto a pane e Red Hot Chili Peppers. Il loro funk rock mi ha svezzato quando ancora ero sporco di latte e non andavo oltre la musica della radio e delle vecchie cassette dei genitori. Sarò anche arrivato in ritardo, loro erano già adulti e non più spericolati e pazzi, ma le loro alchimie bollenti mi hanno cambiato. Introdotto all’adolescenza.
Un fremito mi ha accompagnato quando tempestivamente sono corso a comprare il primo cd inedito che usciva da quando li avevo scoperti, By The Way. Lì per lì non mi sono espresso, ero ancora troppo innamorato per dare un giudizio lucido. Ora sono passati cinque anni ed il disco era rimasto a prendere polvere sullo scaffale.
Lo inserisco nel lettore e parte la prima traccia, titletrack e singolo d’esordio: By The Way è una delle canzoni più brutte del quartetto californiano: assolutamente priva di verve ed inventiva, cerca di nascondersi dietro ad un refrain fintamente aggressivo. Diciamocelo, se i RHCP vogliono cambiare pelle non è questo un bel modo di farlo. Direte voi: oramai sono persone tranquille che hanno sostituito la sacra triade del rock con una pacatezza ed una maturità tipiche dell’età adulta. Bè, d’accordissimo, ma se la loro nuova visione di vita si sposa con una musica più rilassata e meno frenetica che senso ha continuare a strizzare l’occhio parzialmente al proprio passato?
La tracce seguenti invece sono più carine, capaci di fondere la grinta tipica dei nostri con il nuovo amore per certe melodie easy listening e per alcune armonie vocali assai sixties (Beach Boys docet), soprattutto This Is The Place che nel mischiare passato e futuro della band ha un mood piuttosto oscuro tipico di certa funk wave (e non avrebbe sfigurato come singolo apripista se proprio volevano un pezzo che facesse da ponte). Il lavoro procede senza intoppi, forse un po’ insipido anche per colpa delle carenze vocali di Kiedis non più nascoste dietro l’aggressività funk rap di una volta. Le liriche sono quasi totalmente votate al sentimentalismo più banale e mancano della componente sessuale che le aveva contraddistinte per ben vent’anni. Pezzo che davvero stupisce per la sua bruttezza, nel ricalcare privo d’idee i fasti passati, è Can’t Stop. La successiva I Could Die For You è assai lirica ed emozionante, ma ancora manca la scintilla capace di stupire all’interno di un genere difficile (il più difficile) come il pop verso il quale i quattro stanno definitivamente naufragando.
Il disco prosegue senza sussulti (bella la cupa ed effettata Midnight, ad instillare il dubbio che le capacità compositive dei nostri riemergano nei momenti più oscuri) fino all’orrenda caricatura latino-americana di Cabron. Per fortuna poco dopo arriva il pop caraibico di Oh Mercury e si svela il vero gioiello del disco: gusto esotico, grinta e classe perfettamente miscelati, direi il punto migliore da cui riprendere il discorso in futuro.
Tirando le somme? Un disco caruccio, ma nulla più: è giusto voler cambiare ad una certa età, ma bisogna anche avere le palle per farlo.
Chiaro che meritano più rispetto i Red Hot di gente come Pearl Jam o Rolling Stones, cristallizatti in sè stessi da decenni, ma se era una svolta pop quella che si cercava sono mancate molte cose: coraggio, una produzione diversa dal passato (d’altronde c’è qui la mano di Rick Rubin, che già appesantiva esageratamente Californication), gusto e soprattutto un bel po’ d’ispirazione. Comunque il disco rimane sufficiente, più che altro per la simpatia ed il rispetto che i nostri si meritano indistintamente.
Tweet